I dissidenti cubani propongono al governo un referendum sulla libertà per i detenuti di coscienza.

Da tempo, ormai, la dissidenza cubana è tornata in primapagina. Scioperi della fame portati all'estremo, manifestazioni delle Damas de Blanco e la comunità internazionale che si interroga su ciò che sta avvenendo hanno di fatto rianimato il discorso sui prigionieri di coscienza.
Qualcosa nella terra dei Castro si sta muovendo e la morte di Orlando Zapata potrebbe giocare un ruolo fondamentale per l'isola. Non solo. Quella che viene considerata la dissidenza interna ha fatto al governo una proposta: durante la prossima giornata elettorale che si svolgerà il 25 aprile, insieme alle schede per le comunali si inserisca una scheda nella quale si chiede alla popolazione se ritiene opportuno che tutti i cosiddetti prigionieri di coscienza vengano posti in libertà, che si liberino solo i malati oppure che non si liberi nessuno.

In caso dovesse essere accettata la richiesta posta dall'Agenda Para la Transacion Cubana, uno dei più importanti gruppo d'opposizione, Gullermo Fariñas porrà fine allo sciopero della fame che ha iniziato una quarantina di giorni fa.
L'amministrazione cubana fa quadrato intorno al presidente Raul Castro che dal canto suo colpevolizza Usa e Unione Europea . "Cuba non cederà al ricatto degli Stati Uniti e di alcuni paesi dell'Unione Europea, che con le loro opinioni appoggiano lo sciopero della fame che porta avanti Fariñas" ha detto il presidente cubano.
Nel frattempo Fariñas otterrà tutte le cure necessarie a scongiurare il peggio, considerando che nella sua vita ha già fatto una trentina di scioperi della fame e il suo fisico è piuttosto segnato.
C'è dell'altro. Nel caso venisse a mancare Fariñas sarebbero già pronti a prendere il suo posto altri dissidenti. Come Felix Bogne che ha già fatto spaere di essere disposto a arrivare fino ad estreme conclusioni pur di portare avanti la sua causa.

Ma questa volta sembra che l'affaire sia più grosso del solito. Anche la chiesa cattolica ha voluto esprimersi. Il cardinale Jaime Ortega, arcivescovo dell'Havana, ha chiesto all'amministrazione dell'Havana di rivedere le posizioni e attuare una grande campagna di riforme che in questo momento sembrano essere urgenti. "Il nostro Paese sta vivendo una situazione molto difficile, certamente la più difficile vissuta nel 21esimo secolo. Tutti a Cuba pensano che siano necessari cambiamenti rapidi e credo che questa sia un'opinione diffusa a livello nazionale e i ritardi provocano impazienza e risentimento nella popolazione" ha detto il prelato. "Oggi - ha aggiunto Ortega - un dialogo fra Usa e Cuba è necessario". Ma se da un lato l'arcivescovo ha tentato di dare una spallata al governo cubano dall'altro si è sentito in dovere di dire bene le cose come stanno e ha criticato il presidente Usa Barack Obama per aver messo in atto le stesse azioni delle precedenti amministrazioni statunitensi chiedendo che il cambiamento della politica nazionale arrivi prima della revoca del bloqueo.


Fonte: Alessandro Grandi, peacereporter.it

Dopo 44 anni scarcerato l'assassino di Malcolm X

New York, 27 apr. (Apcom) - L'assassino di Malcolm X e' libero dopo 44 anni di carcere. Thomas Hagan, l'unico ad aver ammesso il suo ruolo nell'uccisione nel 1965 del leader afroamericano, è stato scarcerato martedì. Hagan e' stato liberato un giorno prima del previsto, le pratiche d'ufficio sono state elaborate in modo più rapido del previsto secondo il New York State Department of Correctional Services.

Hagan, oggi 69 anni, e' uscito dal penitenziario di minima sicurezza Lincoln Correctional Facility alle ore 11. Il caso vuole che la struttura si trovi proprio ad Harlem, quartiere nero di New York, all'incrocio tra la 110 strada e Malcolm X Boulevard.Hagan era stato inserito in un programma di lavoro full-time nel marzo del 1992, negli ultimi 18 anni ha trascorso cinque giorni alla settimana nella sua casa a Brooklyn con la famiglia e solo due all'interno del carcere.

L'uomo aveva invocato clemenza per il suo caso, chiedendo di essere rilasciato per poter tornare dalla sua famiglia, diventare un consulente per persone con problemi di alcol e droga, e dare un contribuito alla società per "il tempo che gli resta da vivere

La sua richiesta di scarcerazione era gia' stata presentata altre 14 volte, ma sempre respinta. "Sono profondamente rammaricato per quanto successo, non sarebbe mai dovuto accadere" aveva detto Hagan durante lo scorso 3 marzo in tribunale.

Hagan era stato condannato al carcere a vita dopo essere stato giudicato colpevole al processo insieme a Muhammad Abdul Aziz e Kahlil Islam nel 1966. Gli altri due imputati sono stati rilasciati nel 1980 dopo aver a lungo negato il coinvolgimento nell'omicidio. Per poter ottenere il rilascio Hagan ha dovuto garantire di essere in grado di mantenere un'occupazione, sostenere la famiglia e rispettare la libertà vigilata. Stando a un intervista rilasciata al New York Post nel 2008, Hagan lavorerebbe in un fast-food.

Il 21 febbraio del 1965 Hagan aveva solo 22 anni, era noto con il nome Talmadge X Hayer ed era un membro radicale della Nation of Islam. Entro' all'interno della sala da ballo Audubon di Brookyn e sparo' a Malcolm X. Mentre cercava di scappare venne ferito da un colpo di pistola alla gamba e i presenti in sala cercarono di linciarlo. Malcolm mori' di fronte agli occhi della platea, tra cui la moglie Betty Shabazz e i suoi quattro figli.

Fonte: virgilio.it

Bloccata riforma finanziaria Obama

Stop alla riforma delle finanza negli Stati Uniti. In Senato la proposta democratica di cambiare le regole di Wall Street si è chiusa con 41 voti contrari e 57 favorevoli, ovvero meno dei 60 necessari per andare avanti. A esprimersi contro, oltre ai repubblicani, anche il democratico del Nebraska Ben Nelson. Repubblicani e democratici restano divisi su alcuni temi chiave, fra i quali la regolamentazione dei derivati.
"Sono profondamente deluso dal fatto che i repubblicani in Senato abbiano votato per bloccare il dibattito sulla riforma di Wall Street". Lo afferma, in una nota, il presidente americano Barack Obama, commentando l'esito del voto procedurale sull'avvio del dibattito della riforma finanziaria. "La mancanza di responsabilità a Wall Street ha messo in ginocchio la nostra economia. Chiedo al Senato di tornare a lavorare", ha aggiunto Obama.

Fonte: www.mediaset.it

Oggi è il 20° anniversario del lancio del Telescopio Hubble

Il 24 aprile 2010 si celebra il ventesimo anniversario del lancio dei Hubble, il telescopio spaziale che ha rivoluzionato l'astronomia con una grande risonanza sia in termini di produzione scientifica sia presso l’opinione pubblica. E' il primo dei telescopi spaziali e, nonostante l'inizio travagliato per i difetti del suo specchio principale, è stato protagonista di tante scoperte che hanno permesso di definire l'età dell'universo, di "vedere" le prime galassie, di fornire le prime evidenze sull'esistenza dell'energia oscura che occupa circa il 70% dell'universo. Il rientro nell'atmosfera è previsto fra il 2019-2032.

Hubble
Il telescopio spaziale Hubble, in acronimo HST, è messo negli strati esterni dell'atmosfera terrestre, a circa 600 chilometri di altezza, in orbita attorno alla Terra (ogni orbita dura circa 92 minuti). E può arrivare a una risoluzione angolare migliore di 0,1 secondi d'arco. L'HST è chiamato così in onore di Edwin Hubble, astronomo americano. Il telescopio è stato lanciato il 24 aprile 1990 con lo Space Shuttle Discovery come progetto comune della Nasa e dell'Agenzia Spaziale Europea e la sua sostituzione con il Telescopio Spaziale di Nuova Generazione è prevista nel 2013.

Fonte: www.virgilio.it

Le ragioni che hanno condotto il Rwanda alla catastrofe

Quando si cerca di stabilire le ragioni della catastrofe che ha colpito il Rwanda nel 1994 accade di frequente che i fattori strategici siano più spesso ignorati che riconosciuti. Senza tener conto di tali fattori, però, non si può stabilire la verità, per cui la giustizia diventa parziale.

Mentre i protagonisti locali vengono puniti, spesso i principali colpevoli internazionali la fanno franca. Quelli verificatisi nel 1994 in Rwanda non furono conflitti armati interni, ma furono provocati da interventi dall'esterno.

Limitando la discussione alla sola dinamica interna della società e della storia del Rwanda non è possibile risalire agli interventi dall'esterno, che definirono le condizioni per la catastrofe e assecondarono una delle parti del conflitto nelle sue operazioni militari.

Negli anni Ottanta e Novanta, le potenze occidentali, specialmente quelle anglo-americane, ma anche quelle francofone nel ruolo di soci minoritari concorrenti, provocarono la crisi nella regione africana dei Grandi Laghi in due modi, rendendosi così responsabili della catastrofe che ne conseguì.

Primo, rovinarono economicamente la regione, come pure il resto del continente africano, attraverso la politica degli aggiustamenti strutturali del FMI.

Secondo, intervennero con operazioni coperte volte a manipolare i conflitti che covavano nella regione, allo scopo di esercitare il controllo politico.

La combinazione dei due fattori condusse il Ruanda al disastro del 1994. Per comprendere questo fatto occorre tener conto delle seguenti considerazioni strategiche:

1. Gli avvenimenti del 1994 in Rwanda vanno inquadrati nel contesto della guerra in Africa Centrale, iniziata nel 1990 e protrattasi in una serie di conflitti armati fino ai nostri giorni. Da questo contesto risulta evidente come questi conflitti siano principalmente dovuti alla strategia geopolitica che le potenze occidentali, specialmente Stati Uniti ed Inghilterra, decisero di seguire nei confronti dell'Africa, e che merita di essere caratterizzata più propriamente come neo-colonialismo.

2. I favori accordati dai governi statunitense e britannico agli iniziatori della guerra nel 1990 è tale da imputare ai primi gravi responsabilità politiche, se non addirittura legali, per le conseguenze criminali delle loro azioni.

3. Le condizioni economiche imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali al governo di Habyarimana distrussero la fabbrica sociale del Rwanda proprio quando veniva scatenata la guerra contro il paese, aggravando ulteriormente lo stato di disperazione della popolazione.

4. La disputa politica sul diritto dei rifugiati a rientrare nel paese si trasformò in un violento scontro, fino ad evocare uno spettro del passato del Rwanda, quello dello scontro tra gruppi etnici maggioritari e minoritari, che riesplose violento. L'assassinio di tre presidenti di stirpe Hutu nell'arco di soli sei mesi scatenò tensioni esplosive.

5. Le potenze occidentali non si mostrarono mai seriamente intenzionate a garantire i discutibili accordi di pace di Arusha. Dopo che questi vennero meno, esse decisero, ben coscienti di quali sarebbero state le conseguenze, di non intervenire in alcun modo per impedire la carneficina.

6. Gli avvenimenti nel Ruanda e nella regione mostrano come all'origine della politica occidentale in Africa non ci fossero soltanto gli interessi per le materie prime, ma anche l'ideologia diabolica del controllo demografico.

7. Queste considerazioni ci conducono alla conclusione che la teoria molto diffusa, secondo cui gli avvenimenti del 1994 in Rwanda furono la conseguenza del genocidio perpetrato da un gruppo etnico su di un altro gruppo etnico, non tiene conto del quadro completo dei fatti.

È pertanto altamente discutibile che si considerino gli esponenti dell'elite politica di questo primo gruppo colpevoli di genocidio, per il semplice fatto che all'epoca dei fatti detenevano incarichi governativi. Sono accuse che diventano ancora più discutibili nel caso di Andre Ntagerura, personalità ben nota per il suo impegno allo sviluppo economico.

L'invasione del Rwanda, iniziata il 1 ottobre 1990 ad opera di truppe provenienti dall'Uganda che si erano date il nome di Fronte Patriottico Rwandese (FPR), avviò un processo di devastanti guerre regionali che ancora oggi non si è concluso. In questa guerra il FPR si impadronì del potere nel luglio 1994.

Due anni dopo le truppe ruandesi, burundiane e ugandesi invadevano lo Zaire, radevano al suolo i campi di rifugiati da Rwanda e Burundi nella provincia del Kivu, nello Zaire, e portavano al potere le cosiddette forze ribelli della Alleanza delle Forze Democratiche (AFD) con il loro nuovo leader Laurent Kabila, che si installarono a Kinshasa nel maggio 1997.

Un anno più tardi, le truppe dall'Uganda e dal Rwanda invadevano di nuovo lo Zaire, che era diventato Repubblica Democratica del Congo, con il pretesto di sostenere il movimento ribelle del Rassemblement Congolais pour la Democratie (RCD Raggruppamento congolese per la Democrazia).

Gli eserciti dello Zimbabwe, della Namibia e dell'Angola intervennero per salvare il governo di Kinshasa e affrontarono le forze d'invasione in una guerra di posizione che si svolse lungo il fronte che divide il Congo.

Il Financial Times la definì cinicamente “la prima guerra mondiale africana”. Il numero delle vittime e l'entità dei disagi non trova paragoni nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Le vittime, dirette e indirette, dei 12 anni di conflitti dell'Africa centrale e orientale si possono stimare ad un minimo di cinque milioni, ma potrebbero essere anche otto milioni.

Nel frattempo nelle provincie orientali del Congo le forze ribelli, controllate da Uganda e Rwanda, saccheggiano le risorse naturali del paese, specialmente diamanti e coltan, con un accanimento che non si era mai visto in passato.

Come mai alla fine della Guerra Fredda, nel 1990, fu permesso che questa regione dell'Africa sprofondasse in una simile barbarie? Non erano state fatte promesse di pace ai paesi in via di sviluppo? L'Africa non avrebbe dovuto godere dei benefici derivanti sia dalla fine della guerra fredda che dalla cessazione dell'apartheid in Sud Africa?

Sarebbe ingenuo cercare le risposte a queste domande nelle situazioni locali. L'Africa è diventata l'obiettivo di una nuova forma di unilateralismo emerso dopo la disintegrazione della superpotenza sovietica. In Africa l'alleanza tra Inghilterra e Stati Uniti ha condotto questo unilateralismo a nuovi estremi messi in atto con i vecchi metodi. I nuovi estremi sono quelli raggiunti nello sfruttamento delle risorse naturali e nelle sofferenze imposte alla popolazione. I vecchi metodi sono le operazioni coperte, militari e spionistiche, con cui si manipolano e gestiscono i conflitti regionali e locali per scopi politici. Il nuovo unilateralismo comporta anche un tentativo di ricolonizzazione dell'Africa da parte dell'establishment anglo-americano.

La stampa britannica ne parla apertamente. Un esempio è dato dall'articolo di Norman Stone nell'edizione del 18 agosto 1996 del The Observer, “Perché l'impero deve contrattaccare”. Solo un programma di “re-imperialismo illuminato' dall'Europa può ristabilire l'ordine nel caos sanguinoso delle sue ex colonie in Africa”.

L'ipocrisia di queste affermazioni sta nel fatto che gran parte di quel “caos sanguinoso” è stato creato proprio dalla politica occidentale di ingiustizia economica e finanziaria nei confronti dell'Africa, che è propria delle istituzioni come la Banca Mondiale e il FMI.

Sovente poi, governi e servizi segreti occidentali si sono macchiati le mani di sangue con interventi diretti negli affari delle nazioni africane.

Al governo belga sono occorsi quarant'anni per ammettere un proprio ruolo nell'assassinio di Patrice Lumumba in Congo, nel gennaio 1961, e per presentare le sue scuse. Al Foreign Office britannico sono occorsi trent'anni per rendere pubblici i documenti che confermano come Inghilterra e Israele fossero i veri manovratori del golpe di Idi Amin contro Milton Obote nel 1971.

Adesso non è il caso di aspettare altri trenta o quarant'anni prima che le indagini confermino che i governi degli USA e dell'Inghilterra hanno avuto un ruolo nella serie di guerre e di rovesciamenti di regime susseguitisi in Ruanda, Burundi e Congo a partire dall'ottobre 1990. Le prove sono chiare già da oggi.

Nell'aprile e maggio 2001, l'allora parlamentare americana Cynthia McKinney convocò una seduta della Sottocommissione per i diritti umani in seno alla Commissione rapporti internazionali per discutere della crisi umanitaria in Africa.

In apertura dei lavori la McKinney dichiarava: “I resoconti che oggi ascolteremo contribuiranno a farci capire il perché dello stato in cui oggi versa l'Africa. Sentiremo come al nocciolo delle sofferenze africane c'è il desiderio occidentale, e soprattutto statunitense, di ottenere i diamanti, il petrolio, il gas e altre preziose risorse africane.

“Sentiremo come l'occidente, e soprattutto gli Stati Uniti, abbiano messo in moto una politica di oppressione e destabilizzazione animata non da principi morali, ma dallo spietato desiderio di arricchirsi sulle favolose ricchezze dell'Africa.

“Mentre pretendono di essere amici ed alleati di molti paesi africani, diverse nazioni occidentali, e mi vergogno di dover dire anche gli Stati Uniti, hanno in realtà tradito la fiducia di quei paesi perseguendo sistematicamente una politica militare ed economica a vantaggio del proprio tornaconto.

“I paesi occidentali hanno istigato la ribellione contro governi africani stabili incoraggiando, e persino armando partiti d'opposizione e formazioni ribelli affinché iniziassero l'insurrezione armata. Le nazioni occidentali hanno persino partecipato attivamente all'assassinio di alcuni capi di stato africani legittimi e regolarmente eletti per sostituirli con funzionari corrotti e malleabili. Le nazioni occidentali hanno persino incoraggiato e sono state complici dell'invasione illegale che alcune nazioni africane hanno commesso ai danni dei paesi vicini”.

Alle sedute convocate dalla McKinney furono presentate le testimonianze di come alcune imprese del Commonwealth, quali la American Mineral Fields o la Barick Gold, che nel comitato dei consiglieri internazionali conta l'ex presidente George Bush senior e l'ex premier canadese Mulroney, abbiano preso accordi per future concessioni minerarie con le forze ribelli durante il periodo della guerra in Congo. Si discusse anche di come le attività condotte da queste imprese ai tempi della prima invasione del Congo/Zaire ad opera del Rwanda, nel 1996, venissero praticamente a coincidere con le attività di alcuni elementi dei servizi USA in rapporto all'avanzata dei ribelli dell'AFDL di Laurent Kabila. Gli elementi in questione erano funzionari delle ambasciate USA in Kinshasa, Kigali e Kampala e poi ancora della US Agency for International Development (USAID) e della US Defence Intelligence Agency (DIA).

Alle audizioni fu presentata la testimonianza sulle operazioni coperte degli USA a sostegno della prima invasione del Rwanda nel Congo, del 1996, e poi di quella del 1998. Parte di questo sostegno fu un programma ufficiale di addestramento USA, l'Enhanced International Military Education and Training (E-IMET), condotto per conto del governo FPR a Kigali, prima dell'invasione del Congo/Zaire nell'ottobre 1996. Nelle campagne militari del Ruanda e dell'Uganda nel Congo, prima nel periodo 1996-97 e poi di nuovo nel 1998, ebbero un ruolo cruciale le operazioni coperte condotte da forze USA, comprendenti mercenari PMC (Private Military Contractors) come la Military Professional Resources (MPRI) di Alexandria nella Virginia.

Fonti della regione dei Grandi Laghi hanno ripetutamente riferito che tra le forze dei ribelli rwandesi militavano soldati neri statunitensi. Il Pentagono e i servizi USA avrebbero inoltre fornito, e fornirebbero tutt'ora informazioni alle forze d'invasione, nelle diverse fasi dei combattimenti nel Congo orientale, via satellite o con altri mezzi.

Se è così chiaramente assodato che gli interessi statunitensi e del Commonwealth britannico, governativi e privati, sono intervenuti in quelle operazioni che il governo FPR rwandese iniziò sin dal 1994 per occupare il Congo, resta da chiedersi in che misura essi avessero già le mani in pasta, nel periodo che va dal 1990 al 1994, quando il FPR prese il potere in Rwanda.

Nella lotta per il potere in Rwanda dopo il 1959, centinaia di migliaia di Tutsi fuggirono in esilio, nei paesi limitrofi o anche oltremare. Verso la metà degli anni Ottanta una Diaspora Tutsi era già ben affermata negli Stati Uniti, in Canada, in Belgio, in Uganda, in Kenia ed altrove. Molti hanno lasciato il paese che erano bambini, altri sono nati nei luoghi d'esilio. Conoscevano il Rwanda solo dai racconti dei genitori.

In Uganda fu organizzata la Rwanda Refugees Welfare Association (RRWF), che diventò successivamente la Rwandan Alliance for National Unity (RANU). Tra il 1981 ed il 1986, anno in cui Museveni prese il potere in Kampala, il RANU era attivo da Nairobi, in Kenya. Il suo settimo congresso si tenne di nuovo a Kampala, nel dicembre 1987, quando cambiò nuovamente sigla per chiamarsi Fronte Patriottico Rwandese (FPR). Diventò così un'organizzazione politica impegnata nella promozione del rimpatrio dei rifugiati e dei loro figli in Ruanda.

Durante il regime di Obote in Uganda, migliaia di ruandesi in esilio entrarono nell'Esercito di Resistenza Nazionale (NRA) di Yoweri Museveni e combatterono con lui fino alla vittoria del 1986. I due personaggi principali furono Fred Rwigyema, che comandò le truppe FPR all'inizio dell'invasione del Rwanda il 1 ottobre 1990 e Paul Kagame che assunse il comando militare del FPR dopo l'uccisione di Rwigyema.

Rwigyema conosceva Museveni dall'esilio in Tanzania, negli anni Settanta. Rwigyema e Kagame appartenevano ad un ristretto gruppo di amici di Museveni che iniziarono la guerriglia in Uganda nel 1981. Museveni, Rwigyema e Kagame appartenevano ad un gruppo di rivoluzionari radicali di sinistra talvolta chiamato “Il Kindergarten di Dar Es Salaam” che facevano riferimento all'ideologia di Franz Fanon e alla sua glorificazione della violenza come mezzo per effettuare cambiamenti rivoluzionari.

Con il congresso mondiale dei rifugiati rwandesi che si tenne a Washington nell'agosto 1988 iniziò un notevole potenziamento della strategia del FPR volta a sollecitare il rimpatrio delle comunità in esilio.

Il congresso fu organizzato dall'Associazione della Diaspora Banyarwanda a Washington e ottenne il sostegno della Commissione USA per i rifugiati, organizzazione finanziata dal governo e diretta da Roger Winter. La newsletter dei Banyarwanda ringraziò allora Roger Winter per “i suoi sforzi e contatti quodiani compiuti per loro”. Roger Winter diventò un attivo promotore di John Garang, leader dei ribelli e alleato di Museveni dell'Esercito di liberazione del popolo sudanese (SPLA) e per la causa del FPR a Washington.

Roger Winter fu presente tra le truppe del FPR che compirono l'avanzata finale su Kigali nell'estate del 1994. Nel novembre 1996, durante l'attacco delle forze AFDL e rwandesi al campo dei rifugiati Mugunga presso Goma nello Zaire orientale, Winter era insieme a Laurent Kabila. Di questi egli parlò nella deposizione presso la Sottocommissione della camera per le operazioni internazionali e diritti umani il 4 dicembre 1996 a Washington.

Il ruolo di Roger Winter nel FPR solleva un inquietante interrogativo. In che misura, nella sua veste di funzionario americano, influenzò le decisioni del FPR di adottare la politica del diritto dei rifugiati a rientrare in Rwanda con la forza?

Non c'è nulla che può far credere che egli abbia scoraggiato la dirigenza del FPR dal seguire una strategia del rientro con la violenza. Anzi, dagli elogi che fece della vittoria del FPR in Rwanda, nel 1994, si può solo concludere che egli l'abbia sotenuta. È più probabile che egli abbia incoraggiato la dirigenza del FPR ad adottare tale strategia. Questo rappresenta un serio problema per il governo statunitense dell'epoca e merita delle indagini più approfondite.

Il Rwanda aveva un governo internazionalmente riconosciuto che godeva di normali rapporti diplomatici con Washington, con altri stati e con l'ONU. Come ha quindi potuto il governo americano sostenere direttamente o indirettamente il FPR, quando questo era impegnato a rientrare nel paese con la violenza? Rientra nella strategia di impiegare le forze ribelli per cambiare i governi in Africa che successivamente è stata perseguita così apertamente da Washington. L'intenzione dichiarata del FPR di rientrare con la forza in Rwanda avrebbe dovuto incontrare una ferma reazione da parte del governo americano perché si trattava di una violazione flagrante delle convenzioni internazionali.

Basti immaginare la situazione in cui i rifugiati dalla Germania dell'Est, che negli anni Sessanta si contavano in decine di migliaia nella Germania Occidentale, avessero allora costituito un'organizzazione con la quale cercare poi di invadere la Germania dell'Est negli anni Ottanta. Questo avrebbe probabilmente provocato la Terza Guerra Mondiale. Ma è più probabile che le forze americane, britanniche e francesi allora in Germania avrebbero bloccato tutto sul nascere.

La dirigenza del FPR invece è potuta andare fino in fondo nella sua determinazione a rientrare nel Rwanda, se necessario con la forza, e invase il paese dall'Uganda a partire dal 1 ottobre 1990. La stragrande maggioranza di quelle forze ben armate erano membri attivi dell'Esercito di resistenza nazionale ugandese (NRA).

I leader militari del FPR erano tutti alti ufficiali dell'esercito di Museveni. Si può così dire che il 1 ottobre 1990 l'Esercito ugandese ha invaso il Ruanda, anche se gli invasori si autodefinivano “ribelli“.

Fred Rwigyema, comandante delle forze del FPR, era vicecomandante del NRA con il grado di general maggiore. Paul Kagame era maggiore del NRA e ne dirigeva lo spionaggio e il controspionaggio. Peter Bayingana era responsabile dei serivizi medici del NRA con il grado di maggiore. Chris Bunyenzi era maggiore del NRA e ne comandava la Brigata 306. Il maggiore Sam Kaka comandava la polizia militare del NRA.

Sebbene il presidente ugandese Museveni abbia ripetutamente negato di essere al corrente dei preparativi dell'invasione, questo non è credibile, specialmente perché lui non ha mai mantenuto la promessa che avrebbe fermato “i ragazzi rwandesi”, come lui disse al presidente ruandese Habyrimana.

Sulle prime l'invasione del FPR subì una serie di gravi sconfitte ad opera dell'esercito ruandese forte del sostegno militare della Francia, del Belgio e dello Zaire. Dei circa 4000 invasori circa 1800 furono uccisi mentre gli altri furono respinti oltre il confine ugandese. Se il presidente Museveni avesse seriamente voluto porre fine all'invasione, quello era il momento più opportuno per farlo. Invece il FPR riuscì a raggruppare le sue forze e a preparare una nuova offensiva sotto la nuova leadership del maggiore Paul Kagame che per ricoprire quell'incarico interruppe il suo corso di addestramento presso la Scuola del comando e dello stato maggiore degli Stati Uniti presso Forth Leavenworth. Questo fu possibile soltanto con sostanziali aiuti logistici dell'esercito ugandese. Questo fatto da solo basta a dimostrare che il presidente ugandese si era impegnato in quella guerra.

L'invasione del Rwanda, nell'ottobre del 1990, si verificò nel momento in cui tutta l'attenzione mondiale era puntata sui preparativi di guerra degli gli Stati Uniti contro l'Iraq che iniziò nel gennaio 1991. L'Iraq fu punito perché aveva invaso il Kuwait nell'estate del 1990. Mentre invece per l'invasione ugandese del Ruanda il trattamento fu molto diverso. Invece di criticare quell'operazione, i governi statunitense ed inglese la sostennero completamente.

Al Pentagono USA si teneva un programma di addestramento per gli ufficiali ugandesi al quale, come abbiamo visto, partecipò anche il maggiore Kagame. Quando questi sospese il corso che stava seguendo a Fort Leavenworth, per fare ritorno in Uganda, militari e servizi americani sapevano benissimo che andava ad assumere il comando delle truppe in guerra in Rwanda. Solo quattro mesi dopo che le forze d'invasione del FPR furono battute in Rwanda e respinte verso i territori ugandesi, Kagame era già riuscito a raccogliere un nuovo esercito di 5000 uomini ben equipaggiati per attaccare Ruhengeri il 23 gennaio 1991. Alla fine del 1992 il FPR contava in Rwanda almeno 12000 uomini. Il mantenimento di un tale esercito con viveri, uniformi, armi, trasporti e comunicazioni richiede un apparato logistico molto significativo e notevoli risorse finanziarie. Parte di questo denaro provenne dalla diaspora Tutsi, mentre il grosso dovette necessariamente provenire dall'esercito e quindi dal governo ugandese.

La cosa fu ammessa persino dal presidente ugandese in un articolo apparso il 30 maggio 1999 sul giornale ugandese The Monitor: “L'Uganda decise due cose: 1) aiutare materialmente il Fronte Patriottico Rwandese (FPR) in modo che non fosse sconfitto; 2) incoraggiare il dialogo tra il presidente Habyarimana e i ruandesi della diaspora”. Nello stesso articolo Museveni ricorda di aver addestrato alla guerriglia il leader del FPR Fred Rwigyema, quand'era un ragazzo in Mozambico, e come questi, diventato general maggiore, era tra i 4000 uomini di origine ruandese che facevano parte del nuovo esercito ugandese. Museveni riferisce anche di aver dato al general maggiore Kagame, che nel 1996 era ministro della Difesa a Kigali, l'idea di “reclutare una forza di 1200 soldati tra i Masisi Tutsi, addestrarli e integrarli nell'Esercito patriottico rwandese”. Kagame si mise al lavoro e nell'agosto 1996 aveva 2000 di questi soldati pronti per l'invasione del Congo/Zaire, all'inizio della marcia che portò Laurent Kabila al potere. In questa ed in altre occasioni, il presidente Ugandese riferisce che allo stesso modo fu preparata l'invasione del Rwanda del 1990. Museveni aveva preparato nel suo esercito una forza composta da migliaia di uomini e ufficiali di origine rwandese, ma quando questi attaccarono furono chiamati “ribelli Tutsi” sebbene fossero in realtà unità del NRA ugandese.

Dalla stampa di quel periodo è evidente che governi e servizi segreti occidentali fossero chiaramente al corrente di questi metodi impiegati dall'Uganda contro i paesi vicini.

Tuttavia il governo ugandese non godeva solo del sostegno politico dell'occidente, ma anche di quello economico, tanto da essere completamente dipendente dagli aiuti dei governi inglese e americano. Ancora oggi metà del bilancio ugandese è coperto da elargizioni dall'estero. Nel 1987 Lynda Chalker, ministro per gli affari esteri e del Commonwealth del governo britannico, mediò un accordo tra il governo ugandese e il FMI che fu sottoscritto a giugno. Da allora il governo ugandese ha sottoposto il paese alla ricetta degli aggiustamenti strutturali. Svalutazione, austerità, privatizzazioni, deregolamentazioni e abolizione delle tariffe hanno fatto di Museveni il modello del FMI per tutta l'Africa. A lui hanno indistintamente tributato lodi e onori tutti i governi occidentali e i vertici del mondo finanziario e bancario, a partire dall'Inghilterra, ex proprietaria coloniale dell'Uganda. La pubblicità per questo ex maoista seguace delle teorie rivoluzionarie di Franz Fanon fu tale che nel 1995 lo invitarono a tenere un discorso all'incontro annuale del World Economic Forum di Davos.

Lynda Chalker, che oltre ad essere ministro del governo di John Mayor ricopriva l'incarico ancora più importante di esponente del Privy Council della Corona, intrattenne rapporti strettissimi con il presidente ugandese tanto che ne parlò anche un noto specialista africano, il giornalista inglese Richard Dowden.

Secondo alcuni resoconti, Museveni avrebbe presentato la Chalker a Kagame. Lynda Chalker fu la prima personalità occidentale a visitare Kigali dopo la conquista del FPR al comando di Kagame. Vi fece aprire subito un'ambasciata britannica dove, durante i suoi viaggi in Africa, vi si trattenne di frequente per incontrare Kagame. Lasciato l'incarico governativo, la Chalker è passata ai vertici della Banca Mondiale e del World Economic Forum di Davos. Mantiene ancora ottimi rapporti con l'ex leader del FPR e attuale presidente rwandese.

Yoveri Museveni è il caso esemplare di una nuova generazione di leader africani, che negli anni Settanta fecero parte di un vivaio di marxisti presso l'università di Dar Es Salaam ma che negli anni Ottanta e Novanta si trasformarono in liberisti riformisti per essere docilmente impiegati dai governi britannico e americano nei loro maneggi geopolitici in Africa. Oltre a farne un esempio di imposizione della politica del FMI, Washington e Londra costituirono attorno al governo ugandese, all'inizio degli anni Novanta, un'alleanza contro quella che viene definita la minaccia fondamentalista del Sudan. In secondo luogo sono state organizzate operazioni congiunte tra Uganda e FPR ruadese per ridefinire gli equilibri del potere nel centro e nel sud del continente africano. La guerra in Rwanda tra il 1990 ed il 1994 si colloca all'inizio di questo processo. I disegni anglo-americani diventarono più ovvi nei successivi avvenimenti nel Congo. Questo è il motivo per cui Nujoma, presidente della Namibia, definì nel 1998 la marcia delle truppe ruandesi e ugandesi nel Congo una minaccia alla sicurezza del proprio paese e dispiegò le sue truppe congiuntamente a quelle dello Zimbabwe per fermarla.

Il 20 maggio 1997, dopo la presa del potere di Laurent Kabila a Kinshasa, il Times di Londra descrisse la geopolitca anglo-americana dietro Kabila in questi termini:

“Nel novembre dell'anno scorso Washington dette il suo sostegno diplomatico alla ribellione nello Zaire orientale, prevalentemente dei Tutsi, che è sfociata in una rivoluzione con il rovesciamento di Mobutu la scorsa settimana. Di conseguenza ambienti francesi vedono una -- cospirazione anglofona' dietro il movimento di Kabila, in cui l'Inghilterra mette il know-how dell'era imperiale e gli americani i soldi e l'addestramento militare che sono occorsi ai Tutsi per invadere lo Zaire da un capo all'altro in soli sette mesi. Nella teoria cospiratoria forse qualcosa di vero c'è. Tra i beneficiari del cambiamento di regime ci sono George Bush, che insieme all'ex primo ministro canadese Brian Mulroney è consigliere della Barrick Gold di Toronto, la quale ha acquistato dai ribelli una concessione mineraria per l'oro di 80 mila chilometri quadrati nel nordest dello Zaire. Ma la cospirazione è più profonda e più sottile. L'articolo descrive poi l'alleanza dei nuovi leader africani su cui la strategia anglo-americana può fare affidamento: Yoweri Museveni dell'Uganda, Paul Kagame del Rwanda, John Garang dello SPLA sudanese, Issia Afewerki in Eritrea e Meles Zenawi in Etiopia.

Mentre la popolazione continua a morire di fame e di stenti, i movimenti dei ribelli controllati da Rwanda e Uganda nel Congo orientale oggi riforniscono di preziose materie prime l'Europa e l'America settentrionale. Peter Scholl-Latour, uno dei più affermati giornalisti tedeschi che vanta quarant'anni di esperienza in Africa Centrale, ha recentemente riferito un fatto verificatosi nell'estate 2000 che gli è stato personalmente riferito da fonti molto attendibili di Kigali. Quando le tensioni tra gli ex alleati ruandesi e ugandesi giunsero fino a dei veri e propri scontri tra queste forze nel Congo, il sottosegretario di Stato USA per l'Africa, Susan Rice, intervenne personalmente a minacciare ambedue i governi di gravi conseguenze se non fossero immediatamente riprese le forniture del minerale strategico Coltan verso gli USA, interrotte a causa dei loro scontri.

Fonte: www.movisol.org

Il disastro aereo polacco preannuncia l'attentato britannico contro Obama

Non appena ha appreso della tragedia aerea a Smolensk, in Russia, in cui hanno perso la vita il Presidente polacco Lech Kacynski e numerosi alti funzionari e esponenti delle forze armate, Lyndon LaRouche ha lanciato un forte avvertimento sul significato di questo sviluppo nell'aumentare la minaccia strategica alla vita del Presidente Obama.

"Non si tratta di un avvenimento isolato", ha dichiarato LaRouche il 10 aprile. "Quando un pilota polacco, un pilota militare, a cui è stato affidato il governo presidenziale, ignora un ordine, un avvertimento dato sul territorio russo sull'atterraggio in Russia in determinate condizioni atmosferiche e invece prosegue e alla fine tutti muoiono, ciò dà da pensare".

"Questo è parte dell'ambiente di minacce di morte al Presidente Obama. Siamo in una situazione che può essere paragonata, internazionalmente, all'assassinio del Presidente Kennedy… Quando qualcuno vuole assassinare il Presidente degli Stati Uniti, conduce una serie di operazioni che creano un'atmosfera di instabilità, una dinamica che consenta loro di avere buone possibilità di poter insabbiare i fatti sui colpevoli.

"Avvenne la stessa cosa con l'11 settembre, all'inizio del 2001. Avevo ammonito che dovevamo aspettarci un attacco, un attacco terroristico contro gli Stati Uniti. Ebbi ragione nel mio avvertimento. C'erano tutte le prove. Ma ci fu anche una tempesta di azioni diversive…

"Il mio è un avvertimento su una minaccia al Presidente degli Stati Uniti. C'è un Presidente che è peggio che inutile. Ha imposto la riforma sanitaria che gli era stata assegnata. Ha completato la sua missione, come Presidente! E i britannici che gli avevano affidato questa missione sono intenzionati a liberarsi di lui, per creare una situazione in cui imporre una vera e propria dittatura negli Stati Uniti, eliminando un Presidente che ha già esaurito tutta la sua utilità politica! In cui membri chiave del suo governo, inclusi Rahm Emanuel ed altri, stanno cercando di dimettersi dal governo perché sanno che è un'area disastrata".

La dichiarazione di LaRouche giunge nel contesto di un ambiente terribile dal punto di vista della sicurezza per il Presidente Obama nel prossimo periodo. Il 12-13 aprile, 47 capi di stato e di governo si riuniscono a Washington e diplomatici e funzionari esperti del governo hanno ammonito che l'ambiente per la sicurezza è "impossibile".

Poi tra il 15 ed il 19 aprile ci sarà una serie di manifestazioni di protesta, inclusa una protesta armata che attraverserà il fiume Potomac da Washington alla Virginia settentrionale, a cui sono attesi alcuni noti agenti provocatori delle cosiddette milizie, promosse dai britannici. È in base a questi fatti che Lyndon LaRouche ha emesso i primi avvertimenti di un possibile attentato alla vita del Presidente (vedi anche "LaRouche: soffocare il piano britannico vòlto ad assassinare il Presidente Obama").

Tuttavia, Obama non ascolta il consiglio degli esperti di sicurezza e, come Nerone, continua a cercare il contatto col pubblico ovunque possibile, per soddisfare il proprio ego.

Fonte: www.movisol.org

Sarebbe stato preso il Mullah Omar

La polizia nazionale afgana e le Forze Isaf della Nato hanno espugnato il distretto di Gizab, che negli ultimi cinque anni era stata una delle roccaforti dei talebani nella provincia dell'Uruzgan. Tra i catturati ci sarebbero i famosi comandanti talebani Mullah Sadiq, Mohammad Yaqub e Mullah Omar. Secondo quanto riferito dal comandante di polizia dell'Uruzgan-Kandahar, Matiullah Popal, all'agenzia di stampa cinese 'Xinhua': "Le forze della polizia nazionale afgana guidate dalle truppe Nato hanno riconquistato il distretto di Gizab e arrestato quattro comandanti dei militanti, incluso il governatore Mullah Hikmat". Nell'operazione, ha sottolineato il poliziotto, non si sono verificati feriti tra i militari e né fra i civili. Le forze afgane sono state sostenute nel raid dalle truppe australiane. Canberra ha inviato oltre 1.300 truppe in Afghanistan. Al momento i talebani non hanno rilasciato alcun commento.

Fonte: peacereporter.net

Usa, paesino venduto su eBay

Un villaggio dello Stato di Washington è stato venduto per 360mila dollari su eBay. Wauconda, un paesino completo di distributore di benzina, negozio, casa e perfino di codice di avviamento postale, era stato offerto al migliore offerente sulla casa d'aste online da Daphne Fletcher, l'unica residente. Wauconda aveva visto negli ultimi tempi calare la sua popolazione da oltre 300 abitanti nel 1900 ad uno soltanto, per l'appunto la Fletcher.
Perché comprare una casa quando puoi avere la tua città", aveva scritto la donna nell'offerta d'asta: "Sono stanca e voglio andare in pensione".

L'unica proprietaria e residente del villaggio aveva comprato la proprietà nel 2007 per 180mila dollari: le è andata meglio di molti altri proprietari di case negli Stati Uniti che hanno visto svanire, con lo scoppio della "bolla del real estate", il loro sogno immobiliare.
Hanno ceduto al miraggio di possedere la propria città Maddie e Neal Love che sei settimane fa hanno firmato il compromesso. I coniugi Love, "entusiasti motociclisti appassionati di Harley Davidson" sono rimasti conquistati dai grandi cieli di Wauconda "da cui puoi vedere la Via Lattea" e a colpi di click sul mouse hanno battuto 112 rivali.

Fonte: mediaset

Il Pentagono conferma che Italia dispone di bombe nucleari.

Già si sapeva – da un rapporto dell’associazione ambientalista americana Natural Resources Defense Council (v. il manifesto, 10 febbraio 2005) – che gli Stati uniti mantengono in Italia 90 bombe nuclea-ri: 50 ad Aviano (Pordenone) e 40 a Ghedi Torre (Brescia). Altre circa 400 sono dislocate in Germa-nia, Gran Bretagna, Turchia, Belgio e Olanda. Sono bombe tattiche B-61 in tre versioni, la cui potenza va da 45 a 170 kiloton (13 volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima).
Le bombe sono tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l’attacco nucleare: tra questi, i Tornado italiani che sono armati con 40 bombe nucleari (quelle tenute a Ghedi Torre). A tal fine, rive-la il rapporto, piloti italiani vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nei poligoni di Capo Fra-sca (Oristano) e Maniago II (Pordenone).
Ora ciò viene confermato ufficialmente, per la prima volta, nel Nuclear Posture Review 2010, dove si afferma che «i membri non-nucleari della Nato posseggono aerei specificamente configurati, capaci di trasportare armi nucleari». Lo conferma anche il governo italiano, ammettendo così di violare il Trat-tato di non-proliferazione? Oppure dichiara che il Pentagono dice il falso?

Fonte: disarmiamoli.org

Un video incastra un prete pedofilo

Ha 84 anni un cappellano della polizia brasiliana. Padre Luiz Marques Barbosa è stato arrestato per aver molestato un ragazzino del coro della città di Arapirac. Mentre obbligava il minore a praticargli sesso orale davanti all'altare della chiesa è stato ripreso da un video. Attualmente il religioso è in stato di detenzione preventiva. Il giudice della città ha ordinato la detenzione per impedire che padre Luiz si sotragga alla giustizia.
Il sacerdote è stato filmato mentre aveva relazioni sessuali con un chierichetto e le immagini sono state divulgate da un’emittente brasiliana il mese scorso. La Chiesa lo ha subito sospeso dalle sue funzioni assieme a due altri religiosi.

L’accusato ha riconosciuto l’autenticità del video, ma ha affermato che era la prima volta che aveva relazioni sessuali. Davanti alla commissione del Senato che si occupa di pedofili, padre Barbosa ha avuto un faccia a faccia col suo curato Edilson Duarte, che si professa omosessuale e ha ammesso abusi contro minorenni.

Duarte ha accusato anche Barbosa e padre Raimundo Gomes, sempre di Arapiraca, di aver approfittato dei chierichetti e di adolescenti. “Chiedo di essere protetto perché padre Raimundo è molto pericoloso e può volere la mia morte”, ha detto il curato Duarte. Barbosa ha risposto che la denuncia di Duarte “é assurda e bugiarda” e si è detto “sorpreso” dell’ordine di arresto emesso contro di lui. All’udienza della commissione parlamentare hanno partecipato due vittime dei sacerdoti pedofili che hanno confermato le accuse di Duarte.

Fonte: blitzquotidiano:it

STRATEGIE NUCLEARI USA/NATO IN UNA ITALIA "ATOMICA"

La roadmap della nuova strategia nucleare Usa è dunque tracciata: lo annuncia nella prefazione al Nu-clear Posture Review Report 2010 il segretario alla Difesa Robert Gates, anche lui rinnovatosi passan-do dall’amministrazione Bush a quella Obama. Che cosa è cambiato? Anzitutto la situazione interna-zionale: «L’Unione sovietica e il Patto di Varsavia sono scomparsi e tutti gli ex membri non-sovietici del Patto di Varsavia sono ora membri della Nato». La Russia «non è un nemico», ma un partner degli Stati uniti nell’affrontare «altre minacce emergenti». Il presidente Obama ha infatti chiarito che «il più immediato ed estremo pericolo è oggi il terrorismo nucleare».

Qui niente di nuovo rispetto alla strategia dell’amministrazione Bush, che al comunismo (nemico numero uno nella guerra fredda) aveva sostituito il terrorismo, «il nemico oscuro che si nasconde negli angoli bui della Terra». Oggi, si afferma nel rapporto del Pentagono, «Al Qaeda e i loro alleati estre-misti cercano di procurarsi armi nucleari». Quindi, «anche se la minaccia di una guerra nucleare globa-le è divenuta remota, è aumentato il rischio di attacco nucleare». Si agita così lo spettro di un 11 set-tembre nucleare, collegato all’«altra pressante minaccia»: la proliferazione nucleare. Altri paesi, so-prattutto quelli «in contrasto con gli Stati uniti», possono dotarsi di armi nucleari. Si accusa quindi l’Iran, e in subordine la Corea del nord, di perseguire ambizioni nucleari, violando il Trattato di non-proliferazione (Tnp), accrescendo l’instabilità della propria regione e spingendo i paesi limitrofi a prendere in considerazione «proprie opzioni di deterrenza nucleare» (espressione diplomatica per giu-stificare, senza nominarlo, il fatto che Israele possiede armi nucleari e non aderisce al Tnp).

Su questo sfondo sono chiari gli obiettivi della nuova strategia: anzitutto mantenere la supremazia nucleare statunitense, stabilendo con il nuovo Start (firmato l’8 aprile a Praga) uno status quo con la Russia, l’altra maggiore potenza nucleare. Il trattato non limita il numero delle testate nucleari operati-ve nei due arsenali, ma solo le «testate nucleari dispiegate», ossia pronte al lancio su vettori strategici con gittata superiore ai 5.500 km: il tetto viene stabilito in 1.550 per parte, ma è in realtà superiore poiché ciascun bombardiere pesante viene contato come una singola testata anche se ne trasporta venti o più. Siamo ben lungi dal disarmo nucleare. Ciascuna delle due parti non solo manterrà pronto al lancio un numero di testate nucleari in grado di spazzare via la specie umana dalla faccia della Terra, ma potrà continuare a potenziare qualitativamente le proprie forze nucleari.

Nel Nuclear Posture Review si precisa che gli Stati uniti, pur non sviluppando nuovi tipi di testate nucleari, rinnoveranno il proprio arsenale attraverso sostituzioni di componenti. Sarà quindi «rafforza-ta la base scientifica e tecnologica, vitale per la gestione dell’arsenale». A tal fine sono previsti «accre-sciuti investimenti nel complesso degli impianti e del personale addetti alle armi nucleari». Lo stesso, ovviamente, potrà fare la Russia, pur disponendo di minori mezzi economici. Gli Usa cercheranno pe-rò di acquisire un ulteriore vantaggio, sviluppando nuovi tipi di vettori strategici (non limitati dal nuo-vo Start) e realizzando in Europa lo «scudo» anti-missili (restato fuori dell’accordo): un sistema che, una volta messo a punto, permetterebbe loro di neutralizzare almeno in parte la capacità delle forze nucleari strategiche russe. Riguardo alla Cina, gli Usa si dichiarano «preoccupati per i suoi sforzi di modernizzazione militare, compresa quella qualitativa e quantitativa dell’arsenale nucleare».

Allo stesso tempo gli Stati uniti, con il summit del 12 aprile sul Tnp, si prefiggono di rafforzare il re-gime di «non-proliferazione» così come è concepito a Washington: mantenere immutato l’attuale «club nucleare» di cui sono membri, oltre alle due maggiori potenze, Francia, Gran Bretagna, Cina, I-sraele (in incognito), India e Pakistan. Gli Stati uniti, mentre si impegnano a non usare armi nucleari contro gli stati che non le posseggono e si attengono al Tnp, lasciano intendere che si riservano il dirit-to del first strike per impedire che un paese come l’Iran possa costruirle. Ben diverso l’atteggiamento verso gli alleati. Nel Nuclear Posture Review si conferma che «rimane in Europa un piccolo numero di armi nucleari Usa» (stimato in circa 500, di cui 90 in Italia), precisando che «i membri non-nucleari della Nato partecipano alla pianificazione nucleare e posseggono aerei specificamente configurati, ca-paci di trasportare armi nucleari». Si ammette così, in un documento ufficiale, che i primi a violare il Tnp sono gli Stati uniti, i quali forniscono armi nucleari a paesi non-nucleari, e i loro alleati, Italia compresa, i quali violano l’art. 2 del Tnp: «Ciascuno degli stati militarmente non-nucleari si impegna a non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente».

L’Italia è atomica
Il Pentagono conferma che Italia dispone
di bombe nucleari. Cosa dice il governo italiano?

Già si sapeva – da un rapporto dell’associazione ambientalista americana Natural Resources Defense Council (v. il manifesto, 10 febbraio 2005) – che gli Stati uniti mantengono in Italia 90 bombe nuclea-ri: 50 ad Aviano (Pordenone) e 40 a Ghedi Torre (Brescia). Altre circa 400 sono dislocate in Germa-nia, Gran Bretagna, Turchia, Belgio e Olanda. Sono bombe tattiche B-61 in tre versioni, la cui potenza va da 45 a 170 kiloton (13 volte maggiore di quella della bomba di Hiroshima).
Le bombe sono tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l’attacco nucleare: tra questi, i Tornado italiani che sono armati con 40 bombe nucleari (quelle tenute a Ghedi Torre). A tal fine, rive-la il rapporto, piloti italiani vengono addestrati all’uso delle bombe nucleari nei poligoni di Capo Fra-sca (Oristano) e Maniago II (Pordenone).
Ora ciò viene confermato ufficialmente, per la prima volta, nel Nuclear Posture Review 2010, dove si afferma che «i membri non-nucleari della Nato posseggono aerei specificamente configurati, capaci di trasportare armi nucleari». Lo conferma anche il governo italiano, ammettendo così di violare il Trat-tato di non-proliferazione? Oppure dichiara che il Pentagono dice il falso?

Fonte: disarmiamoli.org

Approvata la nuova divisa unica di Croce Rossa Italiana

Il Commissario straordinario della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, ha firmato il 12 aprile l'ordinanza commissariale n.149-10 con cui si determina "l'approvazione del Capitolato tecnico relativo all'abbigliamento operativo dei volontari all'Associazione Italiana della Croce Rossa".
"Il sopra citato Capitolato tecnico - si legge nell'ordinanza - contenente le caratteristiche dei capi d'abbigliamento dell'uniforme operativa della CRI, dovrà essere utilizzato, fermo restando le singole peculiarità, per tutte le nuove procedure di approvvigionamento di capi, poste in essere dal Comitato Centrale, dalle Unità territoriali e dalle Componenti Volontaristiche, dalla data della presente Ordinanza".
"Le procedure di gara finalizzate all'individuazione del fornitore saranno esclusivamente curate dal Servizio 9° del Comitato Centrale".
"L'approvazione di detto capitolato - si legge in conclusione - e della relativa nuova divisa operativa della CRI, non determina il fuori uso delle attuali dotazioni in uso o in giacenza di magazzino, le stesse, per motivi di economicità, dovranno essere utilizzate fino ad esaurimento scorte".

Fonte: cri.it

Le elezioni non risollevano Berlusconi premier e governo al minimo della fiducia

ROMA - Il centrodestra ha vinto le elezioni, ma il dopo voto ha portato un acuirsi dei contrasti nella compagine di governo e nuove polemiche su scelte e dichiarazioni del presidente del Consiglio. E poi l'esplosione del caso Fini. Il messaggio uscito dalle urne è controverso, e la rilevazione che Ipr Marketing conduce mensilmente per Repubblica.it registra una fiducia al livello più basso per Silvio Berlusconi da quando è alla guida del governo. E lo stesso governo registra il suo minimo: 38%.

In sostanza la vittoria elettorale non ha cambiato di nulla l'atteggiamento verso il premier che rimane esattamente quello di un mese fa: al 44% (la somma cioé di quelli che dichiarano molta o abbastanza fiducia in lui), il suo minimo di sempre. E il segno della difficoltà viene confermato, anzi amplificato, nella fiducia espressa nei confronti del Pdl che nell'ultimo mese perde 3 punti. Non a caso a vantaggio delle Lega, che avanza esattamenti di 3. Non invece a vantaggio dell'opposizione, che conferma tutte le sue difficoltà: in lieve calo è infatti anche la fiducia nel Pd, che con le sue incertezze e divisioni interne evidentemente non riesce ad attrarre consensi dalle perplessità degli elettori verso la maggioranza.

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Il premier e il governo. La fiducia in Berlusconi resta al minimo. Il 44% è il punto più basso del suo consenso personale. Ed è importante notare che lo aveva toccato nel mese precedente - durante il quale lo stesso centrodestra espremeva espliciti dubbi anche sulla tenuta elettorale - e lo mantiene immutato, al 44%, dopo il successo nelle urne. E ben il 54% rispondono di avere "poca o nessuna" fiducia in lui. Un consenso ben lontano dal 62% toccato nell'ottobre 2008. E' finora la caduta di una curva che è andata quasi costantemente declinando (unica eccezione la rilevazione dopo essere stato colpito a Milano che vide una crescita del 3%), ma che si era attestata per mesi tra il 45 e il 48%. Poi la caduta. Alla quale corrisponde un analogo crollo del governo nel suo complesso: la fiducia era scesa al 38% in marzo e rimane ferma a questo record negativo anche nel mese in corso (anzi, aumentano dell'1% coloro che nutrono poca o nessuna fiducia).


I partiti. Al minimo storico il Pdl. Cade di tre punti rispetto a marzo arrivando al 40%. Il campione viene intervistato su ciascun partito e il dato si riferisce alla somma di quelli che dichiarano molta o abbastanza fiducia in ciascuna forza politica. Non a caso, quasi a confermare l'analisi del risultato elettorale del centrodestra, tutto a vantaggio della Lega che con il suo 34% sale esattamente di 3. Ma non ne giova l'opposizione. Scende infatti anche il Pd, seppure di due punti (38%) e l'Udc di un punto (37%), mentre resta ferma a 38 l'Italia dei Valori. Una conferma che dopo la sconfitta elettorale il centrosinistra non sembra aver trovato la strada per conquistare consensi tra gli elettori.

I ministri. Anche in questa rilevazione, quelli più esposti alle critiche hanno fatto registrare un decremento. E' il caso di Sacconi che, pur perdendo due punti, rimane in testa alla classifica, di La Russa (-3), Frattini e Calderoli (-2). Comunque sia, solo 8 ministri su 22 (Galan non è stato testato ancora, vista la recente nomina) sono sopra sul 50%.

Fonte: repubblica.it

Gino Strada loda la compattezza straordinaria dello staff di Emergency

Nel corso della conferenza stampa Gino Strada ha lodato la compattezza straordinaria dello staff di Emergency

“Abbiamo saputo che erano liberi mentre erano in viaggio verso l’ambasciata italiana, cioè intorno alle 15.30. Adesso stanno bene, sono felici, ci ringraziano per la grande mobilitazione e insieme valuteremo cosa fare”. Gino Strada fotografa così il momento della liberazione dei tre operatori di Emergency, Marco Garatti, Matteo Dall’Aira e Matteo Pagani, durante la conferenza stampa tenuta nella sede milanese dell’organizzazione. Ringrazia tutti i cittadini italiani e afgani che hanno fatto sentire la loro solidarietà, l’Onu, lo staff di Emergency che ha dimostrato “una compattezza straordinaria”. Un ringraziamento anche al governo italiano.

“Manderò una maglietta di Emergency al ministro Frattini, visto che l’ha richiesta. Lo dico senza ironia.” L’intelligence italiana sapeva in anticipo dell’irruzione nell’ospedale di Emergency? “Dirò quello che ha detto il ministro sui nostri operatori: Prego il cielo che non ne sapessero niente.” “Ora ci sono ancora sei operatori afgani detenuti, non sappiamo neanche se sono solo sei, stiamo comunque provvedendo all’assistenza legale”.

Quanto al lavoro in Afghanistan. “ci sono ancora troppi punti oscuri, speriamo di poter riprendere presto l’attività dell’ospedale di Lashkar Gah che è una presenza indispensabile in quel territorio.” “Non è stata formalizzata nessuna accusa nei confronti di Marco, Matteo e Matteo ma una certa informazione ha spacciato per accuse i deliri del portavoce del governatore di Lashkar Gah”. Per cui, rispetto alle indiscrezioni su una proposta del governo italiano di processare i tre operatori in Italia, “bisogna chiedere a chi ha formulato questa ipotesi, perché non c’è nessuna accusa nei loro confronti” Tra i punti oscuri, Gino Strada racconta un retroscena: “Marco Garatti doveva rientrare a Kabul con un volo da Lashkargah il giorno stesso dell’irruzione nell’ospedale. Abbiamo saputo che il suo volo è stato calcellato dalla coalizione. Se fosse vero, il loro sequestro sarebbe stato preordinato da qualcuno non solo afgano”.

Fonte: Peacereporter.net

Forze speciali Usa denunciate per stragi di civili in Afghanistan

Il comando Isaf-nato di Kabul, normalmente molto diplomatico con la stampa, ha reagito con insolita durezza agli articoli in cui Jerome Starkey, corrispondente del Times di Londra dall'Afghanistan, ha denunciato le vittime civili dei raid notturni condotti delle forze speciali americane.

Kunar. Il primo 'attrito' tra Starkey e i comandi militari alleati risale a fine dicembre 2009, quando il giornalista britannico scrisse che in una di queste operazioni, condotte in un villaggio della provincia orientale di Kunar, le forze speciali Usa avevano giustiziato a sangue freddo otto ragazzini innocenti.
La versione ufficiale inizialmente fornita dai comandi Nato sosteneva che le vittime erano "tutti membri di una cellula terroristica che fabbricava esplosivi artigianali" e che i militari "entrando nel villaggio erano stati attaccati da diversi edifici".
Le inchieste condotte dalle autorità afgane dopo le proteste della popolazione locale e l'articolo di Starkey, hanno dimostrato che i Rambo americani fecero irruzione nella casa sparando a sangue freddo contro due bambini che dormivano in una stanza, Samargul e Ismael, entrambi di 12 anni, poi uccidendo l'anziano padrone di casa, Abdul Khaliq, che si era alzato dopo aver sentito gli spari, e infine ammanettando e giustiziando sul posto altri cinque ragazzini che dormivano in un'altra stanza: Samiullah, 12 anni, Atiqullah e Attahullah, 15 anni, Matiullah, 16 anni, Rahimullah e Sebhanullah, 17 anni. Nessuno di loro mai coinvolto in attività insurrezionali.
Due mesi dopo, a fine febbraio, il comando Nato è stato costretto ad ammettere l'errore, dicendo che quel raid "non avrebbe dovuto essere autorizzato".

Paktya. Il 13 marzo, Starkey pubblica sul Times un nuovo articolo in cui accusa la Nato di aver insabbiato un'altra strage di civili innocenti compiuta nel corso dell'ennesima operazione notturna delle forze speciali Usa, risalente a circa un mese prima.
Secondo un comunicato Isaf, militari americani impegnati in un'operazione in un villaggio della provincia orientale di Paktya, erano stati "attaccati da diversi insorti" che poi son stati uccisi nello "scontro a fuoco". Dopodiché, sempre secondo il rapporto ufficiale, i soldati avrebbero fatto una "raccapricciante" scoperta: i cadaveri di tre donne che erano state legate e uccise, vittime di un delitto d'onore.
L'inchiesta giornalistica di Starkey ha invece dimostrato che le forze speciali americane sono piombate in casa di un noto ufficiale della polizia locale, il comandante Daud, mentre era in corso una festa per la nascita del suo ultimo figlio. I soldati hanno aperto il fuoco uccidendo lui, suo fratello Saranwal Zahir, pubblico ministero, due donne incinte, Shirin e Saleha, e una ragazza di 18 anni, Gualalai. Alcuni giorni dopo, militari americani hanno offerto alla famiglia 2mila dollari di risarcimento per ognuna delle vittime.
Poche ore dopo la pubblicazione dell'articolo, un insolito comunicato Isaf definiva "categoricamente false" le informazioni riportate da Starkey, citandolo con nome e cognome e accusandolo di aver falsificato successive dichiarazioni di un portavoce Nato, salvo ammettere che la storia delle donne vittima di un delitto d'onore non era vera.

Terroristi. "Gli stranieri parlano sempre di diritti umani – ha dichiarato al Times Mohammed Tahir, padre di Gulalai – ma a loro non gliene importa niente! Ci insegnano i diritti umani e poi ci uccidono. Non sono venuti qui per sconfiggere il terrorismo: loro sono i terroristi!".
"Ci hanno dato dei soldi – protesta Haji Sharabuddin, padre di Daud e Saranwal Zahir – ma noi non vogliamo soldi! Hanno sterminato la mia famiglia: noi vogliamo giustizia! Non ci interessa più vivere, ci faremo saltare in aria in un attacco suicida, e tutta la provincia ci sosterrà!".

Fonte: Peacereporter.net

Il vescovo Williamson condannato per aver negato l'Olocuasto e camere a gas

RATISBONA - Il vescovo integralista inglese Richard Williamson è stato condannato oggi a pagare una multa di 10 mila euro, per le sue tesi ngazioniste che tanto clamore e tante critiche hanno provocato. La sanzione al religioso lefebvriano è stata comminata dal tribunale di Ratisbona, nel sud della Germania, in sua assenza.

Il giudice Karin Frahm ha ridotto di 2 mila euro la pena richiesta dal pubblico ministero Edgar Zach. La condanna fa riferimento all'intervista televisiva rilasciata alla televisione pubblica svedese nel gennaio del 2009, in cui Williamson aveva negato l'esistenza delle camere a gas nei campi di concentramento nazisti. E in cui aveva sostenuto che erano morti al massimo 300 mila ebrei.

L'avvocato del vescovo, Matthias Lossmann, aveva chiesto l'assoluzione per il suo cliente, asserendo che le dichiarazioni incriminate non erano state meditate, ma erano in risposta a una domanda a sorpresa nel corso di un'intervista incentrata su altri temi. A sostegno della sua tesi, respinta alla fine dal giudice, Lossmann aveva aggiunto che Williamson non aveva concesso ai suoi intervistatori l'autorizzazione a trasmettere le sue dichiarazioni in Germania, dove la negazione dell'Olocausto è considerata un reato.

Il processo si è svolto senza la presenza dell'imputato, al quale i responsabili della Fraternità di San Pio X avevano intimato in una lettera del marzo scorso di non presentarsi davanti al giudice e di non concedere nuove interviste su temi diversi da quelli strettamente legati ad aspetti religiosi. All'udienza non si sono presentati nemmeno i tre giornalisti della tv svedese che avevano intervistato Williamson nel convento di Zaitzkofen, situato nelle vicinanze di Ratisbona, anche se erano stati convocati dal giudice in qualità di testimoni.


Fonte: Repubblica

Mali: liberato Sergio Cicala e la moglie

Fine di un incubo: Sergio Cicala e la moglie Philomene sono stati liberati. Dopo quattro lunghi mesi nelle mani di Al Qaida per il Maghreb islamico, un alternarsi di appelli e ultimatum, la coppia italiana rapita lo scorso dicembre in Mauritania mentre era diretta in auto in Burkina Faso, è stata rilasciata oggi nel nord del Mali. Un rilascio avvenuto "dopo un intenso lavoro diplomatico", ha spiegato il ministro degli Esteri Franco Frattini, che ha sottolineato la "grande collaborazione delle autorità locali", spiegando che gli ostaggi stanno bene e sono in viaggio verso un luogo sicuro.
E mentre si attendono i dettagli sulla dinamica della liberazione avvenuta, secondo le fonti locali, nel Nord del Mali, non c'é nessun accenno, per ora, all'ipotesi di pagamento di un riscatto. La notizia del rilascio rimbalza in Italia in serata e incassa immediatamente la "viva soddisfazione" del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quella dei presidenti di Camera e Senato, Gianfranco Fini e Renato Schifani. L'incubo era iniziato poco prima di Natale, lo scorso 18 dicembre. Cicala e la moglie, in viaggio con il loro furgone, vengono sequestrati durante la notte. Nelle mani dei rapitori, i terroristi dell'Aqmi, ci sono anche tre cooperanti spagnoli e un francese. Le intelligence di Italia, Spagna e Francia si attivano immediatamente. Ma i negoziati sono lunghi, complessi.
Un primo ultimatum viene fissato per il primo marzo. L'immagine, in un video del 28 febbraio, di Cicala e della moglie circondati da terroristi armati in pieno deserto, è scioccante. Così come colpisce l'appello di Cicala a Berlusconi e Napolitano: "Aiutateci". Poi, per molti giorni, il silenzio. Quel silenzio stampa da sempre voluto dal ministro Frattini e dalla Farnesina per evitare di compromettere l'esito della vicenda. Il ministro, però, più volte rassicura: "Stiamo lavorando". Poi il 10 marzo, l'incubo sembra finire. Si diffonde la notizia della liberazione di una spagnola e della moglie di Cicala. Ma Al Qaida libera solo Alicia Gamez.
La fine dell'incubo è però solo rimandata: venerdì, il lieto fine, con la liberazione dei coniugi. Cicala, 65 anni, pensionato della Regione siciliana, vive con la moglie, 39 anni, sposata nel 2003 in seconde nozze, in una villetta di contrada Giummari e ha una passione per i viaggi, soprattutto per l'Africa. Una passione che già il 3 gennaio del 1994, mentre si trovava in viaggio su una jeep tra Ciad e Niger insieme ad altri turisti, gli è costata molto: in quell'occasione, per lo scoppio di una mina, morì la sua compagna di allora, una donna finlandese, mentre lui rimase ferito. Ora, nelle mani dei sequestratori restano due cooperanti di una Ong catalana. In una zona, quella dell'Africa sahariana, "sempre più interessata dal flagello di Al Qaida", avverte l'inviato speciale del ministro Frattini per le emergenze umanitarie, Margherita Boniver. La liberazione dei Cicala "é una straordinaria notizia, frutto degli eccellenti rapporti tra l'Italia e gli Stati dell'Africa sahariana", aggiunge la Boniver che nel marzo scorso si era recata in Burkina Faso, paese di origine di Philomene.

Fonte: Redazione Tiscali

Obama: "Entro 2030 andremo su Marte"

Il presidente degli Stati Uniti annuncia alla Nasa il rilancio del programma spaziale americano: "Siamo già stati sulla Luna, è il momento di andare oltre. Quando accadrà, sarò ancora vivo a godermi lo spettacolo"

Obama: "Andremo su Marte La prima missione nel 2030"

Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama
CAPE CANAVERAL (Florida) - "La missione su Marte ci sarà, e io sarò ancora vivo per assistere allo spettacolo". Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, presentando a Cape Canaveral il suo programma per il rilancio della Nasa. Obama ha previsto l'arrivo di una navicella nell'orbita di Marte "nella metà degli anni Trenta". E l'atterraggio sul pianeta rosso "arriverà subito dopo".

Obama ha dunque voluto spiegare la cancellazione del programma "Constellation", lanciato dall'amministrazione Bush, che prevedeva il ritorno dell'uomo sulla Luna. "Ve lo dico chiaramente, sulla Luna siamo già stati", ha detto. "C'è altro da esplorare e altro da fare. Credo che dobbiamo spostare il nostro obiettivo più lontano". Il piano illustrato dal presidente statunitense prevede un investimento di 6 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. La corsa al pianeta rosso porterà, prevede la Casa Bianca, 2.500 nuovi posti di lavoro all'industria americana.

Il presidente ha illustrato anche la tempistica del programma: entro il 2015 la Nasa avrà pronto il primo progetto per un vettore "pesante", capace di missioni spaziali, ha detto, "per andare ben oltre la Luna". Entro il 2025, ha proseguito, "ci aspettiamo che la nuova sonda ci permetta di mandare il primo equipaggio nello spazio più profondo". Prima di arrivare su Marte, ha spiegato ancora Obama, si tenterà di inviare una missione umana su un asteroide. "Entro la metà del decennio del 2030, credo che potremo mandare esseri umani nell'orbita di Marte e farli ritornare sani e salvi sulla Terra", ha concluso. "A seguire ci sarà l'approdo su Marte".


Obama ha ricordato che nel 1961, il suo anno di nascita, John Fitzgerald Kennedy promise agli americani una missione sulla Luna entro dieci anni, e che quell'esempio è stato un punto di riferimento per le sue ambizioni. "Nessuno più di me crede nella necessità di continuare a portare l'uomo nello spazio e nella necessità di investire nella ricerca spaziale", ha affermato.

L'inquilino della Casa Bianca ha voluto così respingere le critiche di coloro che in America lo accusano di voler riservare agli Stati Uniti un ruolo di secondo piano per quanto riguarda il futuro nello spazio. Alla vigilia della sua visita alla Nasa, era stato nientemeno che il primo uomo a metter piede sulla Luna, Neil Armstrong, a criticare la nuova strategia spaziale del presidente. "Senza l'esperienza e la conoscenza che le attuali missioni garantiscono, gli Usa sono destinati a scivolare nella mediocrità", aveva scritto in una lettera aperta firmata anche dai colleghi Jim Lowell e Eugene Cernan. Armstrong, Lowell e Cernan ritengono che tagliare i fondi per "Costellation", sia l'inizio del declino del futuro spaziale americano. Gli Usa già a partire dal prossimo anno si ritroveranno senza shuttle, e per arrivare alla Stazione Internazionale dovranno volare sulle russe Soyuz.

Dalla parte del presidente si è schierato il secondo uomo a metter piede sulla Luna, Buzz Aldrin: "I passi che stiamo facendo", ha dichiarato, in risposta al collega Armstrong "vanno nella direzione giusta: rafforzeranno la Nasa e alla fine, vedrete, manderanno l'uomo su Marte".

Fonte: Repubblica.it

Procreazione: in Gran Bretagna embrioni con Dna di 3 persone

ROMA - Sono stati ottenuti i primi embrioni umani a partire dal Dna di tre persone in modo da evitare che possano essere trasmesse malattie genetiche ereditate per via materna, attraverso il Dna contenuto nelle centraline energetiche delle cellule, i mitocondri. La ricerca, pubblicata su Nature, è stata condotta nell'università britannica di Newcastle con il finanziamento dell'associazione britannica per la lotta alla distrofia muscolare (Muscolar Distrophy Campaign), Medical Research Council e Wellcome Trust. "Il mio grande interesse e l'obiettivo di questa ricerca sono i pazienti colpiti dalle malattie mitocondriali, trasmesse dalla madre al figlio e molto numerose", ha detto il coordinatore della ricerca, Douglass Turnbull, in una conferenza stampa diffusa online da Nature.

La novità del lavoro, ha rilevato, è nel fatto che, nonostante siano stati utilizzati due ovociti, si ottiene un pronucleo (ossia un ovocita nel quale il Dna paterno e materno non si sono ancora fusi) come in un normale intervento di fecondazione assistita. "In altre parole - ha detto - siamo in grado di prevenire la trasmissione delle malattie mitocondriali. Abbiamo dimostrato l'efficienza della tecnica e questo è molto importante per i pazienti". Turnbull non nasconde emozione ed entusiasmo e si dice convinto che, dimostrata l'efficacia della tecnica negli 80 embrioni finora ottenuti (fatti sviluppare per 7 giorni), il risultato potrebbe entrare nella pratica clinica nell'arco di tre anni. Gli esperti ritengono perciò questo risultato possa essere considerato la prova di principio per evitare la trasmissione delle malattie mitocondriali. Queste oggi sono la più comune causa di malattie genetiche e mutazioni del Dna mitocondriale sono rilevate in un nato vivo su 250.

I ricercatori hanno utilizzato gli ovociti di due donne. In primo luogo è stato prelevato il nucleo dall'ovocita di una donna non portatrice di malattie mitocondriali: in questo modo si è ottenuto un ovocita che contiene esclusivamente Dna mitocondriale non a rischio. Quindi dall'ovocita della donna portatrice di malattie mitocondriali è stato prelevato il nucleo, così come è stato prelevato il Dna dell'uomo. I Dna della donna e dell'uomo sono stati così trasferiti nell'ovocita con il Dna mitocondriale sano e in questo ambiente senza rischi ha avuto inizio il processo di fecondazione vero e proprio, con la fusione dei patrimoni genetici dei due genitori.

Anche se i Dna sono tre, i genitori restano comunque due perché il Dna mitocondriale, con appena 37 geni, costituisce davvero una frazione piccolissima, rispetto ai circa 23.000 geni contenuti nel Dna del nucleo. Perciò "Dire che l'embrione ha tre genitori è sbagliato perché il Dna mitocondriale, che è quello donato dalla persona 'esterna', non ha nessuna influenza sullo sviluppo successivo", ha rilevato il genetista Giuseppe Novelli, dell'università di Roma Tor Vergata. "Questa tecnica - ha aggiunto - è molto interessante, perché permetterebbe di avere un figlio sano a una persona portatrice di una malattia terribile, che non ha nessuna possibilità di diagnosi preimpianto".

Fonte: www.ansa.it

Sempre più misteri sugli italiani rapiti

KABUL - Una rappresaglia oppure un blitz per sgomberare la zona degli ultimi eventuali testimoni rimasti. Sono due le ipotesi che prendono sempre più corpo. C’è forse un legame fra l’arresto dei tre volontari italiani e le trattative con riscatto portate avanti da Emergency in passato per liberare gli ostaggi italiani Gabriele Torsello e Daniele Mastrogiacomo. Il governo italiano pagò due milioni di dollari per Torsello e fu proprio Gino Strada a dirlo ai microfoni di Sky Tg24. Agli americani certamente non piacciono le “tangenti” ai talebani.

Fonte: gexplorer.net

Dietro il probabile divorzio tra Milingo e Maria Sung, c'è il peso economico insostenibile della donna.

ROMA – Emmanuel Milingo, spretato di recente dal Vaticano, è caduto in disgrazia e medita di mollare la moglie coreana Maria Sung. A quanto apprendiamo infatti, l’ex arcivescovo di Lusaka, ormai soltanto signor Emmanuel, da un po’ di tempo vive in una piccola stanza in un ospizio coreano. Proprio di recente, l’esorcista, che era già stato scomunicato dal Vaticano per avere ordinato vescovi quattro preti sposati negli Usa, ha ricevuto in Corea una visita di un’amica italiana e, sempre a quanto riferiscono le fonti bene informate, la donna avrebbe avuto modo di constatare di persona il degrado nel quale è caduto Milingo.

La novità maggiore scaturita dalla visita è rappresentata dal fatto che l’ex monsignore africano avrebbe espresso il suo proposito di “liberarsi” della Sung, la sua inseparabile compagna dal maggio 2001 sposata, con rito Moon, in un grande albergo di New York. In un’altra occasione il sacerdote, sempre sfogandosi con amici, aveva avuto modo di scrivere che la Sung era diventata per lui un peso economico insostenibile.

Insomma, l’esorcista che da tempo si è legato all’associazione Married priest now sarebbe proprio intenzionato a lasciare tutto e a tornare in Italia. In questo caso, la situazione si complicherebbe ulteriormente visto che l’ex arcivescovo nel nostro Paese arriverebbe da extracomunitario e per rimanere dovrebbe beneficiare di un permesso di lavoro. Cosa molto difficile.

Fonte: www.gexplorer.net

Sarkozy sulla responsabilità della Francia durante il genocidio ruandese del 1994

KIGALI (RUANDA) - La Francia ha commesso importanti errori di giudizio sul genocidio del 1994 in Ruanda e vuole assicurare alla giustizia tutti i responsabili del massacro. Lo ha detto oggi il presidente francese Nicolas Sarkozy.

Sarkozy ha visto il suo omologo Paul Kagame nel paese dell'Africa centrale per cementare ulteriormente le relazioni diplomatiche, già migliorate dopo anni di acrimonia, recriminazioni e stalli diplomatici sugli eventi che hanno caratterizzato il genocidio.

Il presidente francese si è quasi scusato ufficialmente per il ruolo del suo paese durante lo sterminio di 800.000 Tutsi e Hutu in meno di 100 giorni.

"Sono stati commessi importanti errori di giudizio, abbiamo dimostrato una sorta di cecità quando non abbiamo previsto le dimensioni del genocidio del governo", ha detto Sarkozy durante una conferenza stampa congiunta con Kagame.

"Sono stati commessi errori di giudizio ed errori politici, e questi hanno portato a conseguenze tragiche", ha detto Sarkozy.

I due paesi ruppero le relazioni diplomatiche nel 2006, dopo che un giudice di Parigi accusò Kagame e nove consiglieri di aver abbattuto l'aereo dove viaggiava l'ex presidente Juvenal Habyarimana nel 1994.

Il paese dell'Africa centrale respinse tutte le accuse, anzi accusò l'amministrazione dell'ex presidente Francois Mitterand di aver addestrato ed armato le milizie Hutu responsabili dell'attentato.

Fonte: Reuters

Rapporto Mutsinzi

ANALISI DEL RAPPORTO MUTSINZI SULL'ATTENTATO DEL 6 APRILE 1994
CONTRO L'AEREO PRESIDENZIALE RUANDESE

SOMMARIO:
Considerazione preliminare.
Introduzione.
Metodologia utilizzata.
Il contesto politico che precede l'attentato del 6 aprile 1994.
PRIMA PARTE: LE CIRCOSTANZE DEL PROGETTO DI ATTENTATO E DELLA SUA ESECUZIONE.
Rivelazioni prima dell'attentato contro il presidente Habyarimana.
Organizzazione e poste del vertice di Dar-es-Salaam (Tanzania).
La questione della scatola nera.
Lo svolgimento dell'attentato come riportato dai testimoni oculari.
Situazione del FPR al Consiglio Nazionale di Sviluppo (CND).
Le principali questioni relative all'abbattimento dell'aereo Falcon 50.
SECONDA PARTE: LE RESPONSABILITÀ.
Diverse ipotesi emesse sugli autori dell'attentato.
Elementi di prova dell'implicazione delle FAR e dell'Akazu nell'attentato.
Il possesso di missili da parte delle FAR e la loro capacità di utilizzarli.
Il luogo da cui sono stati tirati i missili .
Gli autori dell'attentato.
CONCLUSIONE.

Considerazione preliminare.
La Verità non è unica ed è una realtà dai molteplici risvolti. Bisogna constatare che è particolarmente difficile intravedere la verità relativa ai tragici avvenimenti del 1994 in Ruanda. Il presente documento vuole essere un contributo a tale difficile ricerca della verità.

Introduzione.
Il comitato Mutsinzi è stato creato per ordinanza del Primo Ministro ruandese il 16 aprile 2007, tredici anni dopo l'avvenimento su cui doveva indagare, ma solamente cinque mesi dopo l'uscita, il 17 novembre 2006, del rapporto dell'inchiesta del giudice francese Bruguière che attribuisce la responsabilità dell'attentato ai responsabili del Fronte Patriottico Rwandese (FPR). Datato al 20 aprile 2009, il rapporto del comitato è stato rimesso al governo ruandese il 7 maggio 2009. Un comunicato del consiglio dei ministri indica che sarebbe stato reso pubblico entro i prossimi giorni". Ma la sua pubblicazione è stata ritardata e non si può che esprimere una sola un'ipotesi sulle ragioni di questo ritardo. Infatti, nel novembre 2008, la citazione di Rose Kabuye, una delle nove persone citate nell'ordinanza del giudice Bruguière, davanti alla giustizia francese permette al Ruanda di avere accesso al dossier di istruzione ed è probabile che il rapporto Mutsinzi sia stato rivisto alla luce di certi elementi del dossier parigino. Dopo una lunga attesa, la rivista Continental Magazine approfitta di una fuga di informazioni e pubblica dei brani del rapporto nella sua edizione del 4 dicembre 2009, sette mesi dopo la consegna del testo. Il rapporto è disponibile su internet a partire dal 7 gennaio 2010, ma non è pubblicato ufficialmente dal governo che l'11 gennaio.
E' perlomeno difficile confermare la reale indipendenza del comitato, quando si sa che la sua designazione è stata sottomessa alla necessaria approvazione del capo dello stato, Paul Kagame, messo ufficialmente in causa da due giudici istruttori. Il comitato Mutsinzi si vanta della sua imparzialità, ma tutti i suoi membri sono anche membri del FPR e il suo presidente è uno dei
membri fondatori del FPR, ciò che lo rende giudice e parte. D'altra parte, si può constatare anche l'assenza totale di esperti internazionali in seno ad un comitato esclusivamente ruandese.

Metodologia utilizzata.
Numerosi esempi tratti dal rapporto dimostrano che il metodo usato dal comitato non è senza immune da serie riserve: il rapporto presenta dapprima delle ipotesi non provate o addirittura delle falsità, come dei fatti e l'accumulo di questi "fatti" permette poi di presentare la "verità".
Sin dall'inizio, il comitato parte dal postulato che le autorità ruandesi del dopo-genocidio non sono minimamente implicate nell'attentato del 6 aprile 1994 e che le accuse contrarie sono, quindi, di natura ideologica, proferite dai genocidari e i loro alleati. Secondo il rapporto",... le autorità ruandesi del dopo-genocidio, convinte che la loro non implicazione nell'attentato del 6 aprile 1994 costituisse un'evidente verità, forse non hanno ponderato l'impatto pregiudizievole delle accuse di natura ideologica proferite dai genocidari e i loro alleati… ". Se questa è la posizione di partenza del comitato Mutsinzi, si può ben temere che l'insieme degli elementi del suo rapporto sia già orientato, per dimostrare la pertinenza del suo postulato e non la realtà dei fatti.
Il comitato fa esattamente ciò che il regime ruandese rimprovera all'istruzione del giudice Bruguière, poiché conduce l'inchiesta a senso unico: dimostrare l'innocenza del FPR e la colpevolezza degli estremisti hutu, aiutati "un po'" da certi francesi.
Il rapporto della commissione Mutsinzi ha per oggetto quello di dimostrare che l'aereo del presidente Habyarimana non è stato abbattuto dal FPR, come ha concluso l'istruzione del giudice francese Bruguière, ma dai radicali hutu vicini alla principale vittima. Questo è molto chiaro fin dalle prime pagine e si conferma nell'insieme del rapporto, poiché l'inchiesta non va che in una sola direzione, quella degli estremisti hutu, mentre i dati che mettono in causa il FPR sono sistematicamente ignorati.
Il comitato dice di aver interrogato centinaia di testimoni (557), ma la credibilità delle loro dichiarazioni è soggetta a cauzione. Sentiti in un contesto di timore diffuso di essere arrestati o peggio, perché costantemente minacciati di perseguimenti giudiziari per il loro ruolo nel 1994 e sapendo molto bene ciò che coloro che sono al potere volevano sentire dir loro, le loro testimonianze non sono del tutto oggettive.
Il modo di consultare gli archivi del TIPR e delle inchieste giudiziarie sull'uccisione dei dieci militari belgi della MINUAR è unilaterale e solleva alcuni interrogativi.
Gli archivi del TIPR contengono gli atti di accusa, le posizioni del procuratore, quelle degli avvocati della difesa e degli imputati stessi e gli atti dei verdetti finali. Non è sicuro che il Comitato abbia consultato e confrontato tutte queste forme di informazione. Appare piuttosto che il comitato si è limitato essenzialmente al contenuto delle accuse, senza tenere conto né degli elementi portati dalla difesa, né delle informazioni apportate durante le deliberazioni davanti alla corte, né dei verdetti finali. La stessa osservazione vale per i documenti relativi all'inchiesta militare belga. Appare anche che il Comitato si è limitato a rilevare gli elementi che corrispondevano alla sua tesi favorita. I membri del comitato sembrano non tener conto nemmeno delle inchieste del Giudice francese Bruguière e del giudice spagnolo Morales, relazionandoli con i genocidari, ma senza portare le prove di un tale legame. Il Comitato non ha forse tenuto in conto le dichiarazioni del Generale Munyakazi condannato per genocidio da un tribunale militare ruandese e quelle di testimoni accusati di partecipazione al genocidio e ancora in prigione?

Il contesto politico che precede l'attentato del 6 aprile 1994.
Il comitato imputa l'intera responsabilità della degradazione del contesto politico al presidente
Habyarimana, ai suoi collaboratori e ad un nocciolo duro di politici e di militari opposti ad ogni democratizzazione del regime e più particolarmente agli accordi di pace di Arusha.
Tuttavia, si possono mettere in evidenza alcuni elementi che avrebbero dovuto essere presenti in questa parte del rapporto, in modo da presentare un contesto politico più conforme alla realtà.
1. I quattro attacchi condotti dal FPR (ottobre 1990, gennaio 1991, giugno 1992, febbraio 1993) sono passati semplicemente sotto silenzio.
2. Non una sola parola sulle centinaia di migliaia di persone sfollate, cacciate dalle loro colline dalle truppe del FPR e che che si trovavano accampate in miserabili condizioni alle porte di Kigali. Ci si può chiedere se questa strategia del terrore condotta dal FPR non si è poi ritorta in modo diretto contro i Tutsi dell'interno.
3. E' sottolineato il ruolo svolto da Radio Ruanda e dalla Radio Televisione Libera delle Mille colline (RTLM) nell'esacerbazione delle tensioni tra le comunità. Se questa realtà deve essere presa in seria considerazione, perché non una parola a proposito di Radio Muhabura, la stazione emittente del FPR e del discorso altrettanto radicale che essa veicolava?
4. A proposito dell'utilizzazione di concetti come "Akazu, squadroni della morte, rete Zero, AMASASU", presentati come delle realtà indiscutibili e prove irrefutabili della turpitudine del regime di allora, le numerose ore di udienze presso il Tribunale penale internazionale per il Ruanda (TPIR) non hanno per nulla confermato la materialità di tali espressioni, utilizzate da anni come dogmi intangibili. Le dichiarazioni di parecchi testimoni che non avevano certo alcuna simpatia particolare per il cerchio presidenziale, mettono in evidenza l'esistenza di una vera strategia destinata a demonizzare il presidente Habyarimana. Questa strategia si rivolgeva tanto ai ruandesi che all'opinione pubblica internazionale.
5. Obiettivamente, il ritardo preso nell'applicazione degli Accordi di Arusha non può essere imputato solamente al Presidente Habyarimana e agli estremisti hutu, come affermato dal Comitato. Anche il FPR vi ha contribuito, intromettendosi nella gestione interna dei partiti politici per imporre loro le liste che gli sarebbero favorevoli, rifiutando di partecipare alle cerimonie di giuramento dei membri delle istituzioni di transizione, il 5/1/1994 e il 25/3/94.

PRIMA PARTE: LE CIRCOSTANZE DEL PROGETTO DI ATTENTATO E DELLA SUA ESECUZIONE.

Rivelazioni prima dell'attentato contro il presidente Habyarimana.
Il rapporto cita numerose testimonianze che vanno tutte nello stesso senso: l'attentato contro il Capo dello Stato per opera di estremisti ruandesi, politici e militari, era annunciato già da lungo tempo.
Mettiamo soprattutto in evidenza una realtà totalmente occultata dal comitato. In realtà, nel mese di marzo 1994, il nucleo duro degli estremisti hutu non aveva più nessuno interesse ad eliminare il presidente Habyarimana.
La visione che alcuni tentano di perpetuare è quella del rifiuto quasi isterico degli estremisti hutu rispetto ad ogni concessione nei confronti del FPR. Ma durante la seconda metà del mese di marzo 1994, l'orizzonte politico ruandese era cambiato positivamente. Sotto la direzione del nunzio apostolico, vari ambasciatori con sede a Kigali si è erano fortemente impegnati a trovare una soluzione ai due punti che facevano ancora da ostacolo all'istituzione del governo e del parlamento di transizione: la rappresentazione del Partito Liberale (PL) e l'integrazione della Coalizione per la Difesa della Repubblica (CDR) al processo di pace. Fine marzo, la CDR si era ufficialmente impegnata a rispettare le regole del gioco democratico, ma il FPR non ha voluto accettare la sua integrazione nelle istituzioni della transizione benché, secondo l'articolo 60 del protocollo del 9 gennaio 1995 sulla divisione del potere durante la transizione, non apparteneva al FPR designare o accettare i deputati o ministri regolarmente designati dai rappresentanti legali degli altri partì politici. L'ultimo tentativo di dare inizio alle istituzioni di transizione, il 25 marzo 1994, fu un fallimento, a causa dell'assenza dei rappresentanti del FPR alla cerimonia di giuramento dei ministri e parlamentari. È ciò che fece dire al rappresentante del Segretario Generale dell'Onu in Rwanda, Roger Booh Booh: "Sembra che il FPR tema finalmente la via democratica del processo di pace". Perché questo timore? Perché il FPR aveva capito, già da un certo tempo, che le elezioni che dovevano segnare la fine del periodo di transizione, fissato a 22 mesi, non avrebbero loro permesso di avere la leadership politica in Ruanda. Parallelamente, gli hutu estremisti e molti altri, sicuri della loro maggioranza, si erano arresi all'evidenza che avevano tutto da guadagnare nel lasciare il processo di pace seguire il suo sviluppo fino al suo termine. Nel mese di marzo 1994, non esisteva dunque più nessun motivo obiettivo (se ce ne fosse stato uno prima) per il quale il presidente Habyarimana fosse eliminato da coloro che il rapporto Mutsinzi designa come suoi assassini.
D'altra parte, non è stato ascoltato nessun testimone che implichi piuttosto il FPR nell'attentato. Tuttavia ne esistono molti. Jacques-Roger Booh Booh e Honoré Ngbanda, ex consigliere del presidente Mobutu, si sono infatti espressi sulle minacce di eliminazione del presidente Habyarimana proveniente dalle più alte autorità del FPR. Dopo l’assassinio di Emmanuel Gapyisi (maggio 1993) e di Félicien Gatabazi (febbraio 1994), numerosi osservatori si erano chiesti se la seguente vittima del FPR non sarebbe stata il presidente stesso. Circolavano infatti delle voci persistenti su possibili attacchi del FPR, per imporre la sua volontà nell'applicazione dell'accordo di Pace e il presidente Habyarimana temeva piuttosto la sua eliminazione da parte del FPR. Per questo, le consegne per la sicurezza del presidente prevedevano che l'aereo presidenziale non potesse volare dopo le 18h della sera.

Organizzazione e poste del vertice di Dar-es-Salaam (Tanzania).
Il comitato si interroga sulla partenza del generale Nsabimana per la Tanzania: secondo il rapporto, se il colonnello Bagosora stava preparando un colpo di stato in vista di un genocidio contro i Tutsi, non c'è nulla di illogico nel prendere due piccioni con una fava. Avrebbe così avuto le mani libere per applicare la "sua soluzione finale", senza più subire alcuna pressione, poiché il Capo dello Stato, Habyarimana e il capo di stato maggiore dell'esercito, il generale Nsabimana, che non condividevano la sua visione delle cose, sarebbero morti nell'attentato.
In realtà, il colonnello Bagosora non ha avuto nessun ruolo nella designazione del generale Nsabimana. Quest'ultimo era stato informato della missione all'estero sin dal 29 marzo, data in cui ha iniziato le pratiche per l'ottenimento di un passaporto diplomatico. Inoltre, secondo Runyinya Barabwiriza, interrogato dal comitato, dato che il ministro della Difesa, in missione in Camerun, non poteva accompagnare il presidente a Dar-es-Salaam, è di comune accordo che la scelta è ricaduta sul capo di Stato Maggiore dell'esercito. Infine, Bagosora non aveva nessuna competenza per firmare gli ordini di missione per l'estero. Questa era la prerogativa del presidente Habyarimana che ha firmato il documento in questione.
Per la commissione, fa mistero anche il viaggio del segretario particolare del presidente Habyarimana, il colonnello Sagatwa, tuttavia considerato come facendo parte del campo Bagosora. Nemmeno lui avrebbe dunque sottoscritto al progetto di genocidio totale? La realtà è ben più semplice, poiché, in qualità di segretario particolare del presidente, il Colonnello Sagatwa accompagnava sempre il capo dello stato nei suoi spostamenti all'estero e non si comprende allora il dubbio da parte del comitato.
Il vertice regionale di Dar-es-Salaam fu organizzato per iniziativa del presidente Museveni. Questa paternità merita di essere menzionata, considerato il suo ruolo durante questa giornata e tenuto conto che questo aspetto non appare nel rapporto Mutsinzi.
Il 6 aprile, arrivato verso le 10h00, è solamente all'inizio del pomeriggio che la riunone comincia realmente. Secondo i testimoni, essa è incomprensibilmente tirata in lungo dal presidente Museveni. Con la conseguenza dell'impossibilità per il capo dello stato ruandese di ritornare a Kigali di giorno. Il decollo del Falcon 50 ebbe finalmente luogo verso le 19h30, quando il piano di volo iniziale, conosciuto dalle autorità tanzaniane, prevedeva un ritorno a Kigali per le 17h00, ciò che assicurava un margine necessario, in caso di piccolo ritardo, per essere di ritorno prima del crepuscolo, conformemente alle consegne di sicurezza. Una differenza di due ore e mezzo rispetto al timing iniziale suscita un interrogativo del tutto legittimo, soprattutto quando si sa che l'equipaggio del Falcon 50 temeva un attacco da parte del FPR. Non si può che constatare che il rapporto non porta nessun chiarimento in merito. Inoltre, quando a Dar-es-Salaam si ebbe la notizia dell'attentato, la delegazione ruandese che vi si trovava ancora fu disarmata e non fu autorizzata a ritornare in Ruanda, malgrado la presenza sul posto dei mezzi aerei necessari.

La questione della scatola nera.
Il rapporto affronta la questione dell'enigma della scatola nera. Il comitato vuole dimostrare che i militari francesi, il comandante de Saint Quentin in particolare, hanno ricuperato la scatola nera, ma nessun testimone dice se l'hanno effettivamente trovata e recuperata. La sola cosa che sembra non possa essere messa in dubbio è che sembra vero che l'aereo disponesse di una doppia scatola nera. Se è così, dove si trova e soprattutto dove sono i dati che vi si trovavano? Per il momento, ciò resta un mistero. Ogni inchiesta sull'attentato che voglia essere seria dovrà potere rispondere a queste due questioni.

Lo svolgimento dell'attentato come riportato dai testimoni oculari.
Il comitato presenta in solo quattro linee le testimonianze della popolazione residente sulle colline vicine al luogo dell'attentato, perché: "per mancanza di minime conoscenze tecniche, il loro racconto è poco chiaro sulla natura dei fenomeni osservati e talvolta addirittura inverosimili". Ed ecco, il gioco è fatto. Coloro che nel 1994 sono stati i primi a testimoniare che i missili sono stati lanciati vicino al luogo chiamato "La Ferme (La Fattoria)", situato nella valle tra la collina di Masaka e la strada verso Rwamagana-Kibungo, ora non sono più ritenuti abili a testimoniare. In realtà, il comitato non vuol evidentemente sentire parlare della valle di Masaka e vuole soprattutto dimostrare che i missili sono partiti dal campo militare di Kanombe o dai suoi dintorni immediati. Questa seconda zona si trovava, beninteso, sotto controllo delle FAR.
I "tecnici dell'aeroporto" e i "militari della guardia presidenziale presente all'aeroporto" non rivelano gran cosa. Alcuni parlano di due missili, altri ne menzionano tre. "I tiri si dirigevano di fronte all'aereo" (p. 62), "sembravano provenire da un livello più basso rispetto all'aeroporto" (p. 62), "sono arrivati da sotto l'aereo" (p. 63), "non sono saliti di fronte all'aereo o dietro, ma piuttosto dal suo lato sinistro" (p. 64).
Nemmeno la testimonianza dei caschi blu sembra portare prove più sicure. Il primo, il caporale Gerlache, si trovava sulla piattaforma della vecchia torre di controllo, ad un'altezza di circa sei metri e dice di avere "visto due punti luminosi partire dal suolo in un luogo localizzato nel campo militare di Kanombe". Il problema è che dal suo posto non era in grado di vedere il campo Kanombe, ciò che riconosce egli stesso quando precisa: "(…) da questo luogo, si potevano vedere tutte le piste, ma non il campo delle FAR, trovandosi quest'ultimo in un livello inferiore". Secondo ogni logica, se non è in grado di vedere il campo di Kanombe, non può vedere nemmeno "il punto luminoso" partire dal suolo all'interno del recinto del campo militare. Invece, quando dalla sua posizione guarda in direzione del campo, si trova precisamente nell'asse de "La Ferme". Se, su una mappa, si traccia una linea a partire dalla vecchia torre di controllo in direzione del campo di Kanombe, si arriva giusto a "La Ferme", luogo indicato dagli abitanti di Masaka.
Il secondo casco blu si trovava a 19 Km dal luogo da cui i missili sono stati tirati. Egli precisa, fra l'altro, che c'era un angolo di 70° tra la posizione dell'aereo e la traiettoria del missile. In base a ciò, il comitato conclude che quest'angolo corrisponde al campo militare di Kanombe, mentre il CEBOL ("La Ferme") corrisponderebbe ad un angolo di 30 gradi (p. 66). Non si può che lodare la presenza di spirito del testimone per essere riuscito a rilevare l'ampiezza di quest'angolo, ma ci si può chiedere anche come abbia proceduto. Faceva notte e, in quel momento, i punti di riferimento non esistevano più. Il testimone stesso riconosce testualmente: "Non ho mai visto l'aereo, perché il cielo era buio, erano circa le 20h00". Sulla base di questi dati minimi e contraddittorii, il comitato stima che "i tiri provenivano da un luogo vicino al sito dove l'aereo è esploso" (p. 70). Si noterà che il rapporto non dice "vicino al luogo dove l'aereo si è schiantato", cioè nei pressi del campo di Kanombe.
In realtà, nessuna delle testimonianze afferma in modo credibile che i missili sarebbero partiti dal campo militare di Kanombe, conclusione alla quale arriva tuttavia il comitato.
Dall'insieme delle testimonianze circa il luogo da cui i missili sono stati tirati, un elemento ha trattenuto la nostra attenzione, perché è stato citato in modo identico da numerosi testimoni. L'attentato contro l'aereo presidenziale ha scatenato immediatamente degli spari da parte dei militari che si trovavano all'aeroporto e al campo militare di Kanombe. Tutti gli spari erano diretti in direzione di Masaka. È dunque evidentemente che è in questa direzione che le cose sono successe e non a partire dal campo di Kanombe.

Situazione del FPR al Consiglio Nazionale di Sviluppo (CND).
Il comitato dettaglia innanzitutto il controllo esercitato dalla MINUAR sul distaccamento del FPR al CND e in occasione dei suoi spostamenti all'esterno, particolarmente durante le missioni di rifornimento di legna a Mulindi (quartiere generale del FPR), poi la sorveglianza più o meno discreta esercitata dalle FAR nei confronti del FPR e, infine, la situazione specifica del FPR al CND la sera dell'attentato e nei giorni seguenti, per concludere che le condizioni enumerate non permettevano al FPR né di trasportare armi o missili da Mulindi al CND, né di infiltrare un commando per abbattere l'aereo presidenziale. Il comitato stima infatti che "uno spostamento del FPR dal CND a Masaka non poteva essere realizzato all'insaputa della Minuar e dei servizi di informazione delle FAR" (p. 75).
Il comitato descrive tutte le procedure che avrebbero dovuto essere applicate nel quadro del protocollo di accordo relativo alla zona di consegna delle armi (KWSA), ma omette di dire che è con un'immensa cattiva volontà che il FPR vi si conformava. Come comandante del settore Kigali della MINUAR, incaricato di fare rispettare le "regole del gioco", il colonnello Luc Marchal può attestare che nulla era semplice nelle relazioni con il FPR. Affermare che nessuno poteva lasciare il CND è un'affermazione gratuita.
Verso la fine di marzo 1994, il comandante del distaccamento tunisino gli aveva mostrato varie brecce aperte nel muro di recinzione del CND. Le tracce rilevate dimostravano un'utilizzazione intensiva di questi punti di passaggio. Il colonnello Marchal cita altri esempi che dimostrano che il controllo effettuato dagli elementi del contingente Rutbat era tutt'al più simbolico. Per ciò che riguarda i trasporti di legna da Mulindi, i resoconti forniti dal responsabile della scorta armata facevano apparire che una volta sul posto, il camion su cui veniva caricato la legna sfuggiva, in un momento o nell'altro, al suo controllo. Il colonnello Luc Marchal non può fornire, evidentemente, nessuna prova materiale della vera finalità di questi trasporti di legna da Mulindi a Kigali. Ma la sua intima convinzione è che il FPR era completamente in grado di introdurre al CND dei missili terra-aria mediante queste viaggi quasi quotidiani tra Kigali e Mulindi.
Inoltre, le testimonianze sulla sorveglianza del CND da parte dei militari della guardia presidenziale parlano di una sorveglianza passiva, ma non di una sorveglianza che potesse operare delle operazioni di perquisizioni. Contrariamente alle affermazioni del comitato, i movimenti del FPR erano, dunque, tutto eccetto che realmente controllati.

Le principali questioni relative all'abbattimento dell'aereo Falcon 50.
La determinazione delle responsabilità nell'attentato contro l'aereo presidenziale suppone che si diano delle risposte alle questioni relative alla traiettoria di approccio dell'aereo in vista dell'atterraggio, il luogo in cui l'aereo è stato raggiunto dai proiettili, il luogo di caduta, il tipo di arma utilizzata e il luogo di tiro dei proiettili.
Non c'è molta materia di discussione circa la traiettoria di approccio dell'aereo.
Infatti, in seguito ai tiri antiaerei lanciati dal FPR su un C-130 belga che sorvolava il CND, l'8 gennaio 1994, era stata presa la decisione di non autorizzare più l'asse 100° della pista. Non restava dunque che l'asse 280°. Il rapporto afferma che "l'aereo non ha dunque sorvolato la collina di Masaka, come avanzato da certi autori" (p. 91). Ciò è evidente, ma il luogo detto "La Ferme" si trova, in effetti, tra questa collina e la strada verso Rwamagana-Kibungo.
Trattandosi dell'interdizione di sorvolo della zona del CND, la misura non era stata presa per la sicurezza del contingente del FPR al CND, come lo pretende il rapporto, ma per la sicurezza del traffico aereo.
Il comitato cita infine il libro del Professor Reyntjens, Ruanda. Tre giorni che hanno fatto ribaltare la storia, ma lo legge a contro senso. Il comitato rievoca uno schizzo in cui il prof. Reyntjens indica il "punto di impatto dell'aereo" e sembra pensare che il professore parli del luogo in cui l'aereo è stato toccato, mentre parla del luogo dove si è schiantato, cioè nel giardino della residenza presidenziale. Il comitato ne deduce che "il luogo in cui l'aereo è stato raggiunto dai missili non è ad una distanza significativa da questa residenza presidenziale" (p. 94). secondo il rapporto, l'aereo sarebbe dunque caduto a picco proprio nel momento in cui è stato colpito. Secondo il rapporto, questo è anche il parere della "maggior parte dei testimoni che abitano in particolare a Rusororo e a Masaka" (p. 94), le cui testimonianze sono state liquidate prima, perché non presentano un grande interesse". Se l'aereo fosse stato colpito all'altezza della residenza presidenziale, sarebbe stato allora impossibile che vi precipitasse quasi verticalmente. La distanza tra la residenza e gli inizi della pista riportata su una mappa dello Stato Maggiore su scala 1/50.000, è esattamente di 2.000 metri. Questo implica che l'aereo non solo volava ancora ad una certa altitudine, ma anche ad una velocità non trascurabile. In simili condizioni di volo, è certamente stato colpito molto prima di trovarsi all'altezza della residenza presidenziale.

SECONDA PARTE: LE RESPONSABILITÀ.

Diverse ipotesi emesse sugli autori dell'attentato.
Il comitato riprende le diverse ipotesi già conosciute:
- i militari belgi della MINUAR
- i militari ed oppositori burundesi
- il presidente Mobutu
- il FPR
- gli estremisti hutu
Nulla di nuovo rispetto a ciò che è già conosciuto. Rileviamo però che viene messo in rilievo tutto ciò che punta verso le FAR e, accessoriamente, verso la Francia, mentre le altre piste di ricerca sono liquidate molto velocemente.
Il rapporto studia dapprima il movente dell'attentato (p. 111-114).
In quanto all'incriminazione del FPR, trattata in sole due pagine dal comitato, si dovrebbe indagare sulla natura esatta della missione di scorta di un gruppo di membri del FPR effettuata dal tenente Lotin, il giorno stesso dell'attentato. Nessuna autorità abilitata della MINUAR aveva autorizzato questa missione, decisa, secondo le parole di Deus Kagiraneza, direttamente tra lui e il tenente Lotin. Questa scorta ha percorso più di 400 Km passando, all'andata e al ritorno, proprio vicino al luogo, La Ferme, ai piedi della collina di Masaka, da dove i missili sono stati molto verosimilmente tirati. E' stato un caso? La domanda resta.
La tesi che gli estremisti hutu volevano far fallire la messa in applicazione dell'accordo di Arusha attraverso l'eliminazione dal presidente Habyarimana è ragionevole, ma il rapporto non rileva evidentemente che il FPR, sapendo di non riuscire ad accedere al potere con le urne, poteva avere esattamente lo stesso movente. I testimoni citati non apportano niente di nuovo su questa questione.
Per ciò che riguarda l'ipotesi degli estremisti hutu, il comitato cita, in appoggio della sua tesi, l'atto di accusa contro il colonnello Bagosora da parte del procuratore del TPIR. Omette tuttavia di precisare che gli argomenti del procuratore, relativi alla pianificazione, non sono stati ritenuti dai giudici di questo stesso tribunale e che il colonnello Bagosora è stato, quindi, assolto dall'accusa di pianificazione di genocidio.

Elementi di prova dell'implicazione delle FAR e dell'Akazu nell'attentato.
- In quanto ai preparativi delle FAR in vista della ripresa della guerra rievocata dai testimoni militari belgi, sono conosciuti e innegabili, ma il FPR stava facendo la stessa cosa. Se alcuni testimoni dichiarano che, secondo le loro osservazioni, nel mese di marzo 1994 le FAR si stavano preparando ad una guerra, il comitato non avrebbe dovuto concludere tanto facilmente che si trattava di una preparazione dell'attentato contro il presidente, perché è possibile che le FAR si stessero premunendo semplicemente contro la minaccia di una ripresa della guerra proveniente dal FPR.
- Secondo diversi testimoni, la MINUAR si vide vietato l'accesso al campo militare di Kanombe a partire dal 5 aprile, mentre ai militari francesi non fu tolta tale autorizzazione (p. 121-124). Le testimonianze relative a questo brusco cambiamento di atteggiamento sembrano solide. Non riguardano però che i soli caschi blu belgi, mentre altri osservatori militari della MINUAR, installati permanentemente nel campo di Kanombe, non furono espulsi e hanno potuto proseguire il loro lavoro. Secondo il rapporto, questa misura avrebbe servito a nascondere uno spostamento di armi pesanti, in violazione delle regole della zona di consegna delle armi (KWSA - Kigali Weapons Secure Area). E' possibile, visto che le due parti (FAR e FPR) erano già pienamente impegnate nella logica di una ripresa della guerra, ma il rapporto non riesce a dimostrare il legame con l'attentato.
- E' la stessa cosa con "il controllo e la brusca modifica delle comunicazioni militari" (p. 124-127). Infatti, il cambiamento delle onde di frequenza non era eccezionale e il rapporto stesso afferma, del resto, che questo costituiva "una pratica iniziata dagli istruttori francesi dall'epoca dell'operazione Noroît, nel 1990, quando avevano constatato che il FPR poteva captare le loro comunicazioni". Queste tecniche non hanno nulla di speciale e il legame con l'attentato è, di nuovo, ipotetico.
- Il rapporto affronta anche la questione dell'evacuazione forzata del mercato di Mulindi, nei pressi di Kanombe, nella giornata del 6 aprile, da parte delle FAR. Il comitato si limita a formulare un'ipotesi: "Nella misura in cui le FAR avevano programmato l'attentato contro l'aereo del presidente Habyarimana, è molto probabile che non volessero la presenza di persone del posto nelle vicinanze del luogo in cui l'azione stava per realizzarsi" (p. 129). Però il mercato di Mulindi si trova dall'altro lato della strada verso Rwamagana-Kibungo ed è separato dal campo militare da una cresta di colline. Perché allora evacuare Mulindi, che non è tanto vicino al luogo in cui il comitato localizza la partenza dei missili, e non Kanombe e i suoi dintorni, che sono certamente meno lontani? Se si fosse voluto allontanare dei "testimoni imbarazzanti", sarebbe piuttosto dal lato del comune di Kanombe che lo si sarebbe fatto.
- Il dispiegamento della guardia presidenziale prima dell'attentato, il 6 aprile, non riveste un carattere diverso da quello degli altri giorni. Essa veniva infatti dispiegata sistematicamente tutti i giorni. Nella misura in cui il gruppo del presidente tardava a ritornare da Dar-es-Salaam, a causa dell'importante ritardo sull'orario previsto, è logico che la conseguente preoccupazione si sia concretata in uno dispiegamento forse più intenso che d'abitudine. Ma corrispondeva ad una situazione normale sul piano della sicurezza. È utile precisare che quando il capo dello stato ritornava dall'estero, il dispositivo di sicurezza era sempre più intenso. Tutti gli itinerari possibili venivano sottoposti al controllo della guardia presidenziale. Inoltre, anche la previsione di itinerari diversi faceva parte del dispositivo di sicurezza. La presenza del presidente burundese e di parte della sua delegazione a bordo del Falcon, è stata sicuramente presa in considerazione nell'apprezzamento globale della situazione. C'è da notare anche che, secondo le testimonianze di alcuni caschi blu, non citate nel rapporto, affermano che vari posti di controllo stabiliti nelle prime ore della sera erano poi stati tolti durante la notte.
Trattandosi delle azioni intraprese dalla guardia presidenziale dopo l'attentato, sono da tutti conosciute e non possono essere negate. Il comitato, però, non le considera come una reazione violenta in seguito alla scomparsa del presidente Habyarimana e del generale Nsabimana, tenuti da essa in alta considerazione.
- Se Bagosora avesse preparato un colpo di stato nella notte del 6 aprile 1994, avrebbe preso in considerazione ciò che sarebbe accaduto dopo il suo colpo. Al momento dell'attentato, non si trovava nemmeno al ministero della difesa, per essere pronto a dare ordini e direttive. Al suo piano di colpo di stato, non avrebbe accettato di partecipare insieme a certe persone considerate meno affidabili per il suo piano, come i militari che hanno assistito alla prima riunione di sicurezza, convocata peraltro urgentemente dal generale Ndindiliyimana. Non avrebbe neanche accettato che in quella riunione fossero presenti anche il generale Dallaire, il colonnello Luca Marchal e altri diplomatici stranieri.
Se Bagosora e compagni avessero organizzato realmente ed eseguito un colpo di stato, le cose sarebbero andate diversamente. L'insinuazione secondo cui "il tentato colpo di stato è fallito in seguito ai consigli che Bagosora ha ricevuto dai diplomatici occidentali e dai rappresentanti dell'ONU (…) ", sembra una conclusione incoerente: coloro che decidono di perpetrare un colpo di stato non si lasciano certamente influenzare dai pareri di persone che non hanno più nulla a che fare con la loro decisione. Le cose non sono andate come presentate dal rapporto, anche se il ruolo svolto da Bagosora rimane ancora pieno di numerose zone d'ombra.
- Il rifiuto opposto alla MINUAR di accedere al sito dell'attentato non implica necessariamente la volontà di nascondere il luogo dei tiri dei missili. La MINUAR non era considerata come neutra agli occhi delle FAR e viceversa. L'accesso preferenziale accordato ai militari francesi risulta invece dalla fiducia che le FAR avevano in essi, contrariamente alla MINUAR. D'altra parte, anche il FPR e la MINUAR diffidavano delle FAR e dei militari francesi (come dimostrato dall'atteggiamento del generale Dallaire, alla pagina 44 del rapporto, che rifiuta un'inchiesta condotta dai consiglieri militari belgi e francesi, accusandoli di parzialità). C'è da meravigliarsi se le FAR hanno impedito alla MINUAR di accedere al campo Kanombe e alla residenza del presidente, se si prendono in considerazione i sospetti reciproci che regnavano tra le FAR e la MINUAR?

Il possesso di missili da parte delle FAR e la loro capacità di utilizzarli.
- Le FAR disponevano di artiglieri antiaerei. Questi facevano parte del battaglione LAA (light anti aircraft e non lotta anti aerea) situato a Kanombe. Questo battaglione era attrezzato di cannoni 37 mm e di supporti per mitragliatrici 14.7 mm. Non c'è nessun mistero. Del resto, anche il battaglione di ricognizione possedeva dei missili terra-terra di tipo Milan. Qui si ferma l'esattezza del rapporto del comitato. Affermare che "i tecnici del battaglione LAA erano formati per l'utilizzazione dei missili terra-terra e terra-aria (…) ", è scambiare lucciole per lanterne. Questi due sistemi di armi sono completamente diversi ed esigono delle attitudini specifiche che non si possono certamente ritrovare in aiutanti militari sperimentati con un'esperienza di numerosi anni nell'esercito". Di più, le FAR non disponevano di un'infrastruttura di simulazione di tiro per missili.
- La sezione dedicata al "possesso dei lancia-missili e dei missili da parte delle FAR" (p. 147-155) riferisce di una lunga serie di ordinazioni di missili e di lancia-missili. Ma alla fine, il comitato non porta nessuna prova (distinte di consegna, fatture, transazioni bancarie) di una qualsiasi consegna di missili SAM. Tutti i documenti mostrano che, anche se ha voluto acquistarli, il Ruanda non aveva ricevuto alcun missile terra-aria, non certamente fino a febbraio 1992 e probabilmente nemmeno nel 1993. Il rapporto non dimostra che questi missili sarebbero stati ottenuti più tardi. In nessuna parte del rapporto, il Comitato riesce a dimostrare che questi missili siano stati consegnati. Anche il postulato relativo al possesso di missili da parte delle FAR è senza alcun fondamento.
Il comitato rileva anche che, in una corrispondenza del 22 maggio 1991, il rappresentante del ministero della Difesa all'ambasciata di Francia a Kigali, è scritto che "Lo stato maggiore dell'esercito ruandese è disposto a consegnare al rappresentante del ministero della Difesa un esemplare" (il testo continua così: "di arma terra-aria sovietica di tipo S.A.16 ricuperato sui ribelli il 18 maggio 1991, durante uno scontro nel Parco dell'Akagera") e ne deduce che "le FAR disponevano di vari missili di questo tipo, poiché erano pronte a consegnare ai francesi solamente 'un esemplare' " (p. 156-157). In realtà, era stata trovata un'arma sola. Del resto, in una nota del 23 maggio 1991, citata dal rapporto (p. 157), il generale Quesnot afferma che vario materiali era stato ricuperato sul campo, fra cui un missile portabile Sam 16". Nonostante tutto, il comitato conclude che tutto ciò "lascia chiaramente presagire che le FAR avevano ricuperato dal FPR parecchi missili nuovi SA16 e perciò, nel caso in cui questo recupero sia vero, esse ne avevano nel loro arsenale in aprile 1994" (p. 158).
Si possono fare ancora tre osservazioni a proposito di questo passaggio del rapporto:
(i) il missile recuperato non sarebbe stato di nessuna utilità per le FAR, poiché era difettoso;
(ii) il missile proviene dallo stesso lotto a cui appartengono i due apparentemente utilizzati nell'attentato e quelli repertoriati dalla missione di inchiesta parlamentare francese e in dotazione all'esercito ugandese;
(iii) se le FAR avessero posseduto tanti missili Sam 16, perché avrebbero fatto tanti sforzi, infruttuosi a quanto pare, per acquistarne dopo "averli trovati"?
D'altra parte, per dimostrare che il possesso dei missili da parte l'APR non è un fatto accertato, il comitato tenta immediatamente ("Falsa storia della scoperta di un missile nell'Akagera nel 1991", p. 158-159) di mostrare che le FAR non hanno potuto ricuperare nessun'arma dal FPR. Ma, in questo caso, l'affermazione che questo recupero (che non avrebbe avuto luogo dunque) ha permesso alle FAR di essere in possesso di Sam 16 risulta evidentemente priva di senso.
In realtà, due tubi lancia-missili sono stati raccolti a Masaka e fotografati e i loro numeri di serie sono stati rilevati dal Lt Ingegnere Munyaneza. Il giudice Jean Louis Bruguière ha seguito la traccia di questi due lancia missili fino in Russia, dove ha scoperto, con fattura alla mano, che questi due lancia missili facevano parte di un lotto di quaranta missili acquistati dall'Uganda che non ha, fino ad oggi, contestato questa affermazione. Non ha nemmeno indicato un altro luogo o altre circostanze in cui questi missili, che fanno parte del suo arsenale, sono stati tirati. Essendo la commissione a conoscenza dell'inchiesta di Bruguière, c'è da chiedersi perché non ha cercato di interrogare gli ugandesi, per sapere se loro stessi hanno utilizzato questi missili o se li hanno dati a qualcun altro che li ha utilizzati.

Il luogo da cui sono stati tirati i missili.
- Masaka-CEBOL.
Si tratta della zona da cui, secondo testimonianze concordanti raccolte nel 1994, sono stati tirati i missili che hanno abbattuto l'aereo presidenziale. Ma secondo il rapporto, i testimoni avanzano date diverse sulla scoperta di due tubi lancia-missili , "talmente distanti le une dalle altre che sembra trattarsi di una manipolazione e di una ulteriore messa in scena di una lunga serie di cui le FAR hanno abbondantemente abusato". Il comitato afferma che "la cosiddetta scoperta di armi al CEBOL pone una serie di problemi che permettono di dubitare dell'autenticità dei fatti."
Sarebbe stato molto scomodo per il comitato ammettere la scoperta dei tubi lancia-missili al CEBOL e di continuare a difendere la zona di Kanombe come luogo da cui i missili sono stati tirati. Il comitato afferma che l'esercito e la gendarmeria erano ben presenti nella zona di Kigali-Masaka-Kabuga e che, di conseguenza, era impossibile ogni tentativo di infiltrazione del FPR nella zona litigiosa. Tuttavia, l'infiltrazione di un commando verso il CEBOL non costituiva certamente per il FPR una missione impossibile. Il giorno seguente, il 7 aprile, si è infatti potuto constatare la sconcertante facilità con la quale il FPR ha introdotto battaglioni interi nella città di Kigali, malgrado le molteplici posizioni delle FAR che sbarravano gli assi stradali per impedire ogni infiltrazione verso la capitale.

- Dopo avere scartato La Fattoria come luogo da cui i missili sono stati lanciati, il comitato riprende una "ipotesi più plausibile" (p. 173), quella del campo militare di Kanombe o i suoi dintorni immediati. Sei testimoni, membri delle FAR, dichiarano che i tiri sono partiti “dal recinto della residenza presidenziale o da un luogo molto vicino ad essa” (p. 174); altri militari parlano dei “dintorni immediati del campo” (p. 177). Circa la credibilità dei testimoni, il rapporto riconosce che quelli ex FAR “hanno l’inconveniente di appartenere ad un esercito di cui molti membri sono stati i principali protagonisti del genocidio e dei massacri” (p. 181). Malgrado ciò, prende per oro colato il fatto che "localizzano il punto di partenza dei missili sia nella residenza presidenziale stessa o nei dintorni immediati del recinto di questa o del perimetro della proprietà presidenziale" (p. 181), senza porsi la minima domanda sul carattere strano di questa posizione di tiro, praticamente di fronte all'asse di approccio dell'aereo che si sarebbe schiantato logicamente sugli autori stessi dell'attentato (l'aereo si è effettivamente schiantato nel giardino della residenza presidenziale).
Come l'abbiamo già sottolineato, questi testimoni ex FAR sono in situazione molto difficile, poiché o sono in prigione, o accusati davanti alle giurisdizioni Gacaca o suscettibili di dovere rispondere del loro passato. In altre parole, tutti vivono nell'incertezza del loro futuro e dunque si trovano "sotto influenza". Tale situazione non impedisce al comitato di considerarli come perfettamente credibili. Inoltre, il comitato non ha interrogato nessuno dei testimoni oculari presenti all'interno della residenza presidenziale, né i membri della famiglia Habyarimana, né i militari del distaccamento della guardia presidenziale addetti alla vigilanza della residenza. Tutti questi testimoni hanno visto partire i missili dai dintorni di Masaka.

- Nel suo rapporto, la commissione ha concluso che il lancio dei missili è stato effettuato a partire dal campo Kanombe o nei dintorni della residenza del Presidente Habyarimana, ciò che, nei due casi, è impossibile:
1. il campo militare di Kanombe è situato tra la residenza di Habyarimana e l'aeroporto di Kanombe in cui doveva atterrare il Falcon presidenziale. Se i tiri fossero stati effettuati a partire dal campo militare, il punto di caduta dell'aereo dovrebbe trovarsi tra il campo stesso e l'aeroporto o, addirittura, sulla pista di atterraggio. L'aereo non poteva schiantarsi su un punto che aveva già superato.
2. una persona che si trova nel campo di Kanombe vede l'aereo che sta per atterrare all'aeroporto, una volta che esso ha superato la residenza di Habyarimana. Inoltre, i missili Sam 16 sono armi a tiro teso (diretto) ed è dunque impossibile tirare su un aereo che non si vede ancora.
3. questi missili vengono orientati verso i loro bersagli dal calore liberato dai motori dell'aereo. Tale calore si trova dietro l'aereo e il tiratore deve trovarsi almeno all'altezza o dietro l'aereo. Nel nostro caso il o i tiratori dovrebbero aspettare che il Falcon sia all'altezza del campo di Kanombe o l'avere superato. In realtà, si è schiantato prima di arrivarvi.
4. è pure impossibile avere lanciato i due missili a partire dal recinto della residenza presidenziale. Essendo la residenza presidenziale ad una distanza di 2 Km dall'inizio della pista, quando è passato sopra di essa, l'aereo doveva avere ancora una certa altitudine e una velocità conseguente. Poiché un aereo abbattuto non può precipitare verticalmente come una pietra, il punto di caduta dell'aereo dovrebbe trovarsi nei dintorni del campo militare di Kanombe od oltre.
5. La commissione si è servita di un rapporto di inchiesta del 01/08/1994 svolta dalla sotto sezione delle investigazioni della Forza Aerea belga che ha concluso che: "L'aereo si è schiantato in un bananeto ad Ovest. L'angolo di discesa doveva essere relativamente debole (Max 20°), vista la debole profondità del cratere in un terreno normale. L'aereo doveva avere un'inclinazione a sinistra ("ala destra e piano orizzontale destro intero, ala sinistra e piano orizzontale sinistro molto danneggiati) ". (Pagina 92 del rapporto Mutsinzi). Un debole angolo di 20° dimostra che il missile ha raggiunto l'aereo in una posizione ancora lontana dal suo punto di caduta, altrimenti l'angolo avrebbe dovuto approssimarsi ai 90°.
- Un altro punto del rapporto Mutsinzi che dimostra che il missile non ha raggiunto l'aereo al disopra della residenza presidenziale è alla pagina 58, quando Patrice Munyaneza, che era controllore alla torre di controllo la sera del 06 aprile 1994, ha detto alla commissione quanto segue: "Quando mi stavo preparando a comunicare col pilota per autorizzarlo ad atterrare, ho sentito un rumore di esplosione. Quando ho guardato nella direzione da cui proveniva l'aereo presidenziale, ho visto del fuoco di fronte all'aereo. Mi sono affrettato a chiamare il pilota, ma non rispondeva più". Questo è stato confermato alla pagina 59 del rapporto dal comandante di permanenza all'aeroporto in quel giorno, Cyprien Sindano, che ha riferito alla commissione: "Immediatamente, ho chiesto alla torre di controllo ciò che stava accadendo. Il controllore mi rispose che era in contatto col pilota per le indicazioni finali in vista dell'atterraggio, ma che aveva perso improvvisamente la comunicazione". ciò dimostra chiaramente che l'esplosione dell'aereo ha avuto luogo mentre il pilota chiedeva al controllore le istruzioni finali per l'atterraggio. Queste istruzioni vengono chieste quando il pilota passa al disopra della strumentazione che si trova a Kabuga, a sinistra del centro di Kabuga, direzione Kanombe, nei pressi del domicilio di Ntiyamira Jean Paul. Quando l'aereo passa al disopra dei questa strumentazione, automaticamente si accende una luce sul pannello di controllo dell'aereo stesso e, in quel momento, il pilota deve annunciare che arriva in finale, ciò che a fatto il pilota del Falcon. Ciò dimostra che l'esplosione ha avuto luogo qualche secondo dopo che l'aereo era passato su Kabuga, altrimenti Munyaneza avrebbe avuto il tempo di rispondere al pilota. L'aereo doveva trovarsi tra Kabuga e la collina di Kanombe.
- La maggior parte delle testimonianze concorda sul punto che i missili sono partiti dal lato sinistro dell'aereo. Anche il rapporto di inchiesta dei militari belgi della Forza Aerea lo conferma, dicendo che l'aereo ha toccato il suolo inclinato a sinistra e che il lato sinistro dell'aereo era quello più danneggiato. Nello spazio tra Kabuga e la collina di Kanombe l'aereo aveva alla sua sinistra la collina di Masaka, dove si trova la Fattoria detta CEBOL che altri inquirenti, a differenza della commissione Mutsinzi, designano come luogo di partenza del lancio dei missili che hanno abbattuto il Falcon presidenziale. I tiratori non dovevano trovarsi a Kanombe, ma piuttosto a Masaka.

Gli autori dell'attentato.
Circa gli autori dell'attentato, "avendo dimostrato" che i missili sono partiti dal campo militare di Kanombe o dalla residenza presidenziale, il rapporto conclude: "Inoltre, in questo periodo di estrema tensione, in seguito ai quattro anni di guerra tra il FPR e le FAR, è impossibile immaginare che degli elementi estranei alle forze armate ruandesi abbiano potuto infiltrarsi nel campo militare di Kanombe e a pochi metri di distanza dalla residenza presidenziale per commettervi l'attentato, quando sul luogo vi si trovavano le principali unità dell'esercito. Perciò, le forze armate ruandesi sono responsabili dell'attentato" (p. 182).
La commissione Mutsinzi designa gli estremisti delle FAR in generale come autori del lancio dei missili, ma senza nessuna altra precisione sulla identità di singole persone.
Il campo Kanombe ospitava più di sette unità militari diverse, ciascuna con il proprio comando, senza dipendere per le operazioni dal comandante del campo, ma direttamente dallo stato Maggiore dell'esercito. Come mandanti o responsabili dell'attentato, la commissione designa il Col. Bagosora, il Lt Col. Nsengiyumva, il Maggiore Ntabakuze, Maj Mpiranya e il Col. Muberuka, comandante del campo di Kanombe. Tra questi, non c'è che Ntabakuze che aveva la sua unità, il Battaglione Para commando, nel campo di Kanombe; Bagosora non aveva nessuna unità alle sue dipendenze e non poteva organizzare nessuna riunione con i militari di Kanombe; Nsengiyumva era comandante di una compagnia a Gisenyi; Mpiranya comandava la Guardia Presidenziale basata a Kimihurura; il Battaglione di Riconoscimento del Maggiore Nzuwonemeye, che la commissione tenta spesso di implicare, era stanziato al campo Kigali. A parte il maggiore Ntabakuze del Battaglione Para commando, la commissione non ha citato nessun comandante delle unità militari del campo di Kanombe, nemmeno il Comandante del Battaglione Anti - Aereo, il cui distaccamento che sorvegliava l'aeroporto era sospettato dalla commissione di detenere dei missili. Come si è potuto allora lanciare due missili dal campo di Kanombe senza essere visti e identificato dai militari di queste altre unità che non sono sospettate di essere implicate nel complotto contro il presidente Habyarimana?

CONCLUSIONE.
Terminata la lettura del rapporto, abbiamo l'impressione di avere preso conoscenza di una parodia di inchiesta, la cui sceneggiatura era già stata scritta in anticipo. In tutte le 186 pagine del documento, assistiamo ad una lunga requisitoria a senso unico, il cui unico obiettivo è quello di dimostrare la totale innocenza del FPR e la machiavellica colpevolezza degli estremisti hutu. Gli argomenti delicati, quelli che rischiavano di mettere in dubbio la sua "indipendenza", sono stati sistematicamente evitati. Le autorità ruandesi avevano rimproverato al giudice Bruguière di avere condotto l'istruzione solo nella direzione dell'accusa e tralasciando difesa, ma il comitato Mutsinzi non è riuscito a fare diversamente.
La tecnica utilizzata dai membri della commissione è costantemente la stessa: sulla base di valutazioni e di ipotesi, spesso basate su delle falsità patenti, avanza dei fatti e l'accumulo di questi "fatti" permette poi di arrivare ad una "verità."
Il rapporto Mutsinzi non affronta la questione dell'identificazione degli autori (poiché, secondo il rapporto, "tutti sapevano", ci si aspetterebbe di leggere almeno il nome di un indiziato) e non formula nessuna ipotesi concludente circa l'arma del delitto (la questione dei missili terra-aria).
Si tratta piuttosto di un rapporto politico ed opportunista di dubbia qualità e di manifesta manipolazione. E' imbarazzante per l'Africa che il presidente della Corte africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, Jean Mutsinzi, abbia presieduto tale commedia.
Ciò che è successo il 6 aprile 1994, non è un semplice piccolo problema intra ruandese. Gli avvenimenti che hanno segnato la regione dei Grandi Laghi questi ultimi venti anni, dimostrano a sufficienza che le poste in gioco reali superano ampiamente il quadro delle frontiere del paese delle Mille Colline. I protagonisti del dramma ruandese sono conosciuti. Ignoriamo tuttavia tutto, almeno ufficialmente, circa coloro che tirano le file dietro le quinte e che sono corresponsabili del massacro di vari milioni di persone. Questa dimensione internazionale in cui si iscrive l'attentato che costò la vita a due Capi di Stato e ai loro collaboratori, è stata totalmente elusa dal comitato. Non possiamo che constatarlo con profonda delusione.
Dopo il rapporto della commissione Mucyo (Commissione nazionale indipendente incaricata di riunire le prove dell'implicazione dello stato francese nel genocidio perpetrato in Ruanda nel 1994), quell del comitato Mutsinzi è la seconda risposta ruandese nei confronti dell'istruzione Bruguière. È solamente attraverso il dibattito contraddittorio, proprio delle giurisdizioni giudiziarie, che la verità potrà essere conosciuta. Spetterebbe dunque alla giustizia deliberare, in Ruanda e in Francia, ma si teme che non si arriverà, almeno a breve scadenza, alla soluzione giudiziaria di questa questione, la cui l'importanza è tuttavia cruciale, poiché tutto sembra indicare che i due paesi interessati sono pronti a sacrificare cinicamente la giustizia sull'altare della politica. Il popolo ruandese merita qualcosa di meglio.
Numerosi sono coloro che da tanti anni aspettano semplicemente la Verità sui tragici avvenimenti del 1994. No, la Verità non esce vittoriosa da questo misero rapporto del comitato Mutsinzi. Solo un vero e libero dibattito, sicuramente difficile ma indispensabile, potrà permettere alla verità di manifestarsi.

Fonte:www.musabyimana.be
 
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