Afghanistan, ucciso un altro soldato italiano


Due operatori delle forze speciali italiane sono stati colpiti da proiettili durante un'operazione per la cattura di alcune persone che avevano piazzato poco prima un ordigno lungo una strada. Uno dei due, il tenente Alessandro Romani, di 36 anni, è morto, ferito non gravemente l'altro. E' avvenuto nel distretto di Bakwa, in Afghanistan. Inizialmente sembrava che i due militari non fossero considerati in pericolo di vita.
Kabul, spari su italiani: un morto

La vittima è un tenente romano
Il militare morto è il tenente Alessandro Romani, del IX Reggimento paracadutisti Col Moschin. Nato a Roma il 18 luglio 1974, aveva numerose esperienze in missione all'estero. Il collega ferito si chiama Elio Domenico Rapisarda.

Entrambi i militari sono stati colpiti alla spalla. Romani, secondo fonti della Difesa, era stato sottoposto in queste ore ad un'operazione chirurgica nell'ospedale statunitense "Role 2" di Farah.

Il comando italiano di Herat ha ricostruito le fasi che hanno portato al coinvolgimento dei soldati: un Predator, un aereo senza pilota, ha individuato due insorti che mettevano un ordigno esplosivo sulla strada che porta a Delaram. Il drone li ha seguiti e ha individuato la zona da cui sono partiti.

Da Herat si è alzato in volo un elicottero Ch47 con a bordo gli incursori della Task force 45 per catturare i due terroristi. Il Ch47 era scortato da due elicotteri Mangusta. Nella fase di avvicinamento al covo degli insorti i militari italiani sono stati fatti oggetti di numerosi colpi di arma da fuoco e due sono stati feriti, di cui uno mortalmente.

Napolitano addolorato
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso alla famiglia - rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese - i sentimenti della sua affettuosa vicinanza e della piu' sincera partecipazione al loro grande dolore. Nella tragica circostanza, il Capo dello Stato ha altresì chiesto al Capo di Stato Maggiore della Difesa, gen. Vincenzo Camporini, di rendersi interprete presso l'Esercito dei suoi sentimenti di cordoglio, di commossa solidarietà e di partecipazione al dolore provocato dal luttuoso evento. Il Presidente ha inoltre fatto pervenire il suo incoraggiamento e un affettuoso augurio al primo Caporal maggiore Elio Domenico Rapisarda, ferito nello scontro a fuoco.

Schifani: "Caduto per la democrazia"
"Appresa la notizia della morte del Tenente del 9° Reggimento d'assalto Col Moschin Alessandro Romani, caduto nel corso di una operazione militare in Afghanistan, esprimo a nome mio personale e dell'intera Assemblea di Palazzo Madama, i sentimenti del più profondo e commosso cordoglio, pregandola di farli giungere ai familiari dell'ufficiale che ha sacrificato la vita per difendere la pace, la democrazia e la sicurezza nel mondo". E' quanto scrive il presidente del Senato Renato Schifani nel messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, generale Vincenzo Camporini.

Il cordoglio di Fini
Anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, in un messaggio al Capo di Stato Maggiore, manifesta il suo cordoglio. "Nell'esprimere il sentimento di profonda gratitudine ai nostri soldati nell'area, il cui lavoro ed il cui sacrificio quotidiano costituiscono un presidio indispensabile contro le forze del terrore e della destabilizzazione, La prego di far pervenire alla famiglia del caduto le più sentite condoglianze ed un sincero augurio di pronto ristabilimento al nostro militare ferito".

Aperta un'inchiesta
La Procura di Roma ha aperto un fascicolo processuale sulla morte di Alessandro Romani. Gli accertamenti sono coordinati dal procuratore aggiunto, Pietro Saliotti, capo del pool antiterrorismo della Capitale. Attentato con finalità di terrorismo il reato iscritto nel fascicolo. Il magistrato ha delegato i carabinieri del Ros ed il personale investigativo di stanza in Afghanistan di eseguire gli accertamenti.

Fonte : www.mediaset.it

Il Consiglio di sicurezza internazionale deve smettere di proteggere il dittatore Paul Kagame


L’attualità internazionale è ormai segnata dal rapporto delle Nazioni Unite sul genocidio degli hutu da parte del Fronte Patriottico Ruandese ( RPF ) impegnato in Congo tra il 1996 e il 1998. Dal giugno 2010, le autorità ruandesi stanno facendo di tutto per soffocare la pubblicazione della presente relazione. Le Nazioni Unite devono avere il coraggio di dire la verità sui crimini del RPF. Deve abbandonare il passato vergognoso e scandaloso che hanno portato alla sepoltura del rapporto Gersony, la relazione di Roberto Garreton e la relazione Hourigan. Alcuni osservatori hanno ritenuto che l’Alto Commissario per i diritti umani, il giudice Navanethem Pillay, ex giudice del TPIR e ex presidente della ICTR, non mollerà e vorrà che questa relazione sia pubblicata senza alterazione. Ma le forze negative costituite da lobby ben pagato dal RPF sicuramente si agiteranno perché la relazione non venga pubblicata. Kigali non risparmia sforzi per farlo. Il Ruanda minaccia di ritirare le sue forze dal Darfur. La minaccia del Ruanda è infantile. Le forze armate appartenenti ad un esercito che ha commesso crimini di genocidio e crimini contro l’umanità non meritano di essere incoronati con la dignità di essere chiamati “ Forze di intervento umanitario”. Diversi paesi sono pronti a sostituirli perché il costo della missione non è a carico del Ruanda. Il conto è pagato dai paesi industrializzati, compresi gli Stati Uniti in particolare. Il Ruanda deve smettere di ricattare. Deve assumersi la responsabilità di gravi crimini commessi in Ruanda e Congo. Si ricorda che le Nazioni Unite devono avere il coraggio di pubblicare un rapporto sui crimini di guerra e genocidio in Ruanda da parte dell’esercito di RPF dal 1990 fino ad oggi. Il tenente Ruzibiza ha parlato a lungo nel suo libro, ma è solo una piccola frazione di quanto è effettivamente accaduto. Egli non ha dato una descrizione sistematica e ignobili massacri di donne, bambini e anziani nei comuni di Byumba. Tra ottobre 1990 e luglio 1994, Byumba ha perso oltre il 80% della sua popolazione Hutu per mano dei soldati Tutsi del RPF. In Ruhengeri, i comuni di Butaro, Cyeru, Nyamugari, Kidaho, Kinigi furono teatro di massacri premeditati di civili innocenti. Io stesso sono testimone perché i miei genitori e le altre membri della mia famiglia sono stati uccisi dai soldati di RPF in questo periodo. Le Nazioni Unite sono in possesso di relazioni riguardanti i massacri, preparate da UNAMIR (contingente di pace presente nel Paese all’epoca ). Durante la sua conquista di Kibungo, Kigali, Butare e Kigali, l’RPF ha preso di mira tutti gli Hutu, indipendentemente dall’età e dal sesso delle vittime. Ci sono molti testimoni delle atrocità commesse in nome di ciò che l’RPF ha chiamato “pacificazione”. Esistono molti casi in cui RPF organizzava degli incontri con la popolazione, ufficialmente per mostrare loro le nuove autorità o per dare loro le direzioni, ma generalmente conclusi con un massacro puro e semplice dei presenti. Des Forges ne racconta un po’nel suo libro: “Leave none to tell the story”. I ruandesi non potranno mai riconciliarsi se la verità rimane nascosta. Come ci può essere una riconciliazione quandogli hutu innocenti sono stati sistematicamente incarcerati e condannati al carcere a vita mentre i criminali noti, arroganti ed ultra-estremisti del RPF sono glorificati in tutto il mondo e pretendono di guidare il Ruanda al loro piacere? La comunità internazionale deve ora riflettere seriamente sul futuro del Ruanda. Un Ruanda durevole sul piano di pace, di sviluppo e la serenità dei cuori dovrà esser costruita su una vera riconciliazione, la verità dei valori, la soppressione dell’ impunità, in uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge e un vero sistema di politica democratica . Niente di tutto questo esiste in Ruanda, ma la comunità internazionale è piena di elogi nei confronti del dittatore Kagame. Bisogna che questa comunità internazionale sappia che non costruisce, ma distrugge il Ruanda.

fonte: www.musabyimana.be , testo originale in lingua francese

Ruanda: documento Onu sul presunto genocidio, questa volta ai danni degli Hutu


Un massacro sistematico di Hutu compiuto in Congo dalle forze ruandesi. Lo dice un rapporto Onu che ipotizza il reato di genocidio

A puntare una torcia su quel pozzo buio che è diventato il Congo, si può solo prendere spavento. E infatti vengono i brividi a leggere il rapporto firmato dall'Alto Commissariato per i diritti umani dell'Onu, il primo tentativo di ricostruire e mappare la violenza consumatasi nel Paese africano tra il 1993 e il 2003. E' una parola in particolare che sintetizza tutte le atrocità elencate nelle 545 pagine: genocidio.

Non ci sono innocenti. Un paio di premesse sono necessarie prima di cominciare questo viaggio al centro della guerra: il documento redatto dall'Unhchr è solo una bozza e comunque anche nella sua forma definitiva non avrà il valore di un'indagine giudiziaria: non è quindi un elenco di prove ma, semmai, di elementi di prova sui quali si dovrà pronunciare poi un tribunale per decidere se ci sia stato un genocidio.
Nel monumentale dossier trovano posto tutti i protagonisti disonorati di quel massacro: i soldati di Angola, Ciad, Uganda, i pretoriani di Mobutu Sese Seko (padre e padrone dello Zaire, poi diventato Congo) e quelli di Laurent Kabila (che i ruandesi portarono al potere nell'ex colonia belga) e di suo figlio Joseph, le milizie Mai Mai, i paramilitari hutu dell'Interahamwe in fuga dal Ruanda e altre formazioni di macellai. D'altronde, la guerra in Congo del 1998-2003 è anche nota come Guerra Mondiale africana e vi si riversarono massacratori e saccheggiatori da ogni dove. Ma c'è un imputato in particolare che esce a pezzi dal documento: è il Ruanda. L'ombra del genocidio si allunga soprattutto su Kigali, vale a dire sul presidente Paul Kagame.

I paragrafi sul Ruanda. E' il 1994. In Ruanda si è appena consumato il genocidio dei Tutsi (800 mila morti) ad opera delle milizie Hutu che, sconfitte dall'esercito ruandese (Rpa), battono in ritirata. Una parte dei paramilitari si rifugerà in Congo dove verrà inseguita dai militari Tutsi. E' in questo contesto che matura un altro genocidio, quello di cui adesso potrebbe essere accusato il Ruanda, perché i massacri che seguirono gli assalti ai campi profughi non colpirono solo i membri dell'Interhamwe. Il rapporto insiste in molti passaggi sulle responsabilità di Kigali e dimostra come la violenza cui si abbandonò il suo esercito non è soltanto il frutto del clima di guerra ma il risultato di un piano politico diretto contro gli Hutu in quanto tali. Il paragrafo 512, ad esempio, parla di "attacchi sistematici che hanno fatto vittime nell'ordine di decine di migliaia tra Hutu di ogni nazionalità (non solo ruandesi, quindi, ndr)...la maggior parte delle vittime erano donne e bambini che non costituivano una minaccia per l'Rpa". Nel paragrafo 513 vengono esaminati i massacri di Rushturu (30 ottobre 1996) e Mugogo (18 novembre 1996): in queste due località del nord Kivu, i miliziani ruandesi separarono gli Hutu dalle altre etnie, dimostrando come la loro violenza avesse un obiettivo specifico. Nella pianura di Ruzizi, invece, furono allestite barriere per filtrare il flusso di profughi burundesi e ruandesi, in fuga dopo che i loro campi erano stati distrutti, per identificare i profughi Hutu e separarli dagli altri disperati. Il 514 contiene un elenco sterminato di villaggi attaccati dall'esercito ruandese, in cui "il massacro sistematico dei superstiti, l'uccisione di donne e bambini, gli stupri, l'uso di armi come bastoni, machete e martelli", raccontano di una violenza che non ha nulla a che fare con la guerra, tanto più che in molte località venivano convocate finte assemblee per radunare i profughi e trucidarli. Più esplicito il paragrafo 515, che descrive di assalti in cui sarebbero stati uccisi quasi esclusivamente donne e bambini, come a Kibumba, Osso, Mugunga, Hombo, Biriko, Kashusha, Shanje. Nel paragrafo 516 è descritto l'atto finale di una tremenda caccia a profughi Hutu cominciata nell'ottobre 1996 nei due Kivu e terminata con gli eccidi di Mbandaka e Wendji, il 13 maggio 1997, a duemila chilometri dai confini ruandesi: li hanno inseguiti per mesi e poi massacrati. E ad un "piano genocida" fa riferimento il 517.

Un problema politico. Ma qui la questione è solo in parte giuridica, perché qualsiasi giudizio di colpevolezza comporterà ricadute politiche e questo spiega perché il draft non si sia ancora trasformato in un documento ufficiale. Per il Ruanda, l'accusa di genocidio sarebbe un colpo tremendo. Kagame, che ha rimesso in piedi il Paese senza riuscire a pacificarlo, rischia di vedere la sua immagine di uomo dei miracoli offuscata irrimediabilmente, con la conseguente chiusura dei rubinetti delle donazioni internazionali. E la minaccia di ritorsione non si è fatta attendere, nella forma di un ritiro delle truppe ruandesi dai contingenti Onu. Per questo, la versione provvisoria del documento non piace nemmeno al Segretario Generale Ban Ki-Moon. Questo report rischia di mandare in fumo gli sforzi di Kagame di accreditarsi definitivamente come il pacificatore del Ruanda e di indebolirlo politicamente. Ipotesi che non piace nemmeno agli Stati Uniti, per i quali il presidente ruandese si è rivelato una pedina particolarmente utile nel continente. E' facile immaginare che la versione definitiva sarà quindi meno netta nelle accuse. Le ombre, però, rimangono tutte.

fonte: peacereporter.net
 
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